The Father - Nulla è come sembra
2020
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Regista
L'arma più affilata nel cinema di Florian Zeller non è la macchina da presa, ma la sala di montaggio. E in "The Father", quest'arma è impugnata con la precisione di un chirurgo e la crudeltà di un torturatore per dissezionare non un corpo, ma una coscienza. Il film, adattamento della sua stessa acclamata pièce teatrale "Le Père", si presenta come un dramma da camera sulla demenza senile, ma questa è una descrizione tanto accurata quanto definire "2001: Odissea nello spazio" un film su un computer che non funziona bene. In realtà, Zeller ha costruito un thriller esistenziale, un horror psicologico che si svolge interamente nei corridoi labirintici di una mente che si sta sgretolando.
L'esperienza non è quella di osservare un uomo, Anthony (un Anthony Hopkins in stato di grazia testamentaria), perdere la memoria; è quella di perdere la memoria con lui. Siamo intrappolati nella sua percezione fallace, costretti a navigare un mondo le cui regole logiche e spaziali cambiano senza preavviso. L'appartamento londinese, unico e claustrofobico set, diventa un personaggio a sé stante, un'entità ostile e mutevole che ricorda l'Overlook Hotel di Kubrick. Come il labirinto di siepi in "Shining", la casa di Anthony si riconfigura costantemente: una porta conduce a un luogo diverso, un quadro scompare, i mobili cambiano disposizione. Non è sciatteria di sceneggiatura, è il linguaggio stesso del film, la grammatica della dissoluzione. Zeller e lo scenografo Peter Francis trasformano lo spazio fisico in una proiezione diretta del caos interiore, una geografia emotiva dove la perdita di un oggetto – l'orologio, ossessivamente cercato – è la metafora della perdita del tempo stesso, e quindi dell'identità.
Questa architettura della confusione è un'impresa formalista di rara intelligenza, che trascende le origini teatrali dell'opera. Laddove il palcoscenico è costretto a una certa staticità, il cinema di Zeller usa il montaggio di Yorgos Lamprinos per creare "jump scare" cognitivi. Un personaggio esce da una stanza e rientra con il volto di un altro attore. Una conversazione inizia in un momento e finisce in un altro, con dettagli cruciali alterati. Siamo di fronte all'apoteosi del narratore inaffidabile, un concetto letterario che qui trova la sua più terrificante incarnazione cinematografica. Non è l'inganno volontario di un Keyser Söze, ma il collasso involontario di un intero universo soggettivo. L'eco più prossima non è tanto nel cinema sulla vecchiaia, come "Amour" di Haneke (che osserva la tragedia dall'esterno, con fredda compassione), quanto in opere sulla frattura della percezione come "Memento" di Nolan. Ma se il protagonista di Nolan tenta disperatamente di costruire un ordine posticcio con tatuaggi e polaroid, Anthony non ha più gli strumenti nemmeno per riconoscere il disordine.
E al centro di questo maelstrom, c'è lui, Anthony Hopkins. In una carriera costellata di giganti, da Hannibal Lecter a Re Lear, questa performance è forse la più nuda, la più vulnerabile. È un Golia della recitazione che si spoglia di ogni armatura. Hopkins non "interpreta" la confusione; la abita con una gamma di sfumature sbalorditiva. C'è l'aristocratico charme con cui tenta di mascherare le sue mancanze, il lampo di lucidità terrificante in cui percepisce il baratro, la rabbia paranoica verso chi cerca di aiutarlo e, infine, la regressione a una vulnerabilità infantile, straziante e primordiale. È una performance meta-testuale: assistiamo al grande controllore, l'intelletto supremo del cinema (Lecter), diventare la vittima definitiva della perdita di controllo. La sua mente, un tempo una "palazzo della memoria" impenetrabile, è ora un edificio in rovina, saccheggiato dal tempo.
A fargli da contrappunto, Olivia Colman nei panni della figlia Anne è l'ancora di gravità emotiva del film, il nostro doloroso surrogato. Il suo volto è una mappa del dolore del "caregiver": un paesaggio di amore incondizionato, sfinimento, frustrazione e un senso di colpa che la divora. Ogni sua espressione, ogni sorriso tirato, ogni sospiro trattenuto, ci riporta alla realtà oggettiva che il film ci nega costantemente. La tragedia di Anne non è meno profonda di quella di Anthony; è la tragedia di chi deve assistere impotente alla cancellazione della persona amata, diventando progressivamente un'estranea per il proprio padre. La loro dinamica è un pas de deux devastante tra una memoria che svanisce e un amore che resta, disperatamente aggrappato al nulla.
Zeller, con un'audacia che rasenta la sfrontateezza per un regista esordiente, inserisce nel tessuto del film un sottile commento sulla natura stessa dell'identità. La questione che aleggia, di chiara ascendenza pirandelliana, è: cosa rimane di una persona quando i suoi ricordi, le sue relazioni, la sua stessa narrazione biografica vengono cancellati? Siamo la somma delle nostre esperienze o esiste un nucleo irriducibile del sé? "The Father" sembra suggerire una risposta terribile. L'identità non è una fortezza, ma un castello di carte, e basta un soffio del vento della malattia per farlo crollare. La celebre frase di Locke, "la coscienza fa la persona", qui viene messa in scena come un teorema dimostrato per assurdo, attraverso la sua negazione. Senza una coscienza continua, Anthony si frantuma in una serie di maschere intercambiabili: il padre affascinante, il vecchio bisbetico, il bambino spaventato.
Il film si inserisce in un contesto socio-culturale in cui l'allungamento della vita ha reso le malattie neurodegenerative una delle paure più radicate dell'Occidente. In una società ossessionata dalla produttività, dall'autonomia e dalla memoria storica e individuale, la demenza rappresenta il tabù definitivo, la perdita di tutto ciò che ci definisce. Zeller affronta questo tabù non con il pietismo di un film a tema sociale, ma con il rigore di un'opera d'arte formalista. L'uso diegetico di arie d'opera (Bizet, Bellini), amate da Anthony, non è un semplice vezzo colto, ma il suono dei frammenti di un'identità che riaffiorano come relitti da un naufragio, ricordi di un'emozione svincolati dal loro contesto.
La conclusione è un crollo totale che culmina in una delle scene finali più potenti del cinema recente. La dissoluzione è completa. L'appartamento, simbolo della sua mente, svanisce per rivelare l'impersonale asetticità di una stanza di ricovero. L'uomo che dominava il suo mondo con arguzia e carisma è ridotto a un pianto infantile, invocando la madre, spogliato di decenni di vita, ridotto alla sua essenza più primordiale e indifesa. "Sto perdendo tutte le mie foglie", mormora, e in quella metafora di una semplicità disarmante c'è tutto il peso della tragedia umana. "The Father" non è un film facile, né consolatorio. È un'esperienza immersiva e spietata, un capolavoro di design sonoro e visivo che utilizza ogni strumento del linguaggio cinematografico per farci provare sulla nostra pelle il terrore di non sapere più chi siamo. Non si limita a raccontare una dissoluzione: ce la fa abitare. E una volta abitata, è impossibile dimenticarla.
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