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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

L'insulto

2017

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Un tubo di scarico che gocciola. Tutto comincia da lì, da un’inezia idraulica, un banale guasto urbano che diventa la prima crepa in una diga emotiva e storica pronta a crollare. Ziad Doueiri, con L’insulto, non mette in scena un semplice litigio di quartiere a Beirut; orchestra una sinfonia assordante e precisa sulla cacofonia della memoria, sul peso delle parole non dette e, soprattutto, sulla virulenza di quelle pronunciate. Il film è un meccanismo a orologeria di superba fattura drammaturgica, un duello che parte da un marciapiede e finisce per mettere un’intera nazione sul banco dei testimoni.

La scintilla è tanto triviale quanto universale: Tony Hanna (un magnifico Adel Karam), un meccanico libanese cristiano, nazionalista e fieramente legato al suo partito, innaffia le piante sul suo balcone. L’acqua, canalizzata da un tubo illegale, gocciola addosso a Yasser Salameh (Kamel El Basha, la cui interpretazione gli è valsa la Coppa Volpi a Venezia, in una decisione di rara e ineccepibile giustezza), capocantiere palestinese che sta supervisionando dei lavori nella via. Ne nasce un alterco. Yasser, pragmatico e taciturno, offre di riparare il danno; Tony, orgoglioso e irascibile, lo respinge con sdegno. Volano parole grosse, finché Yasser, esasperato, mormora un insulto. Tony, ferito nell'onore, esige delle scuse. Scuse che non arriveranno, sostituite da un pugno che rompe due costole a Tony e da un’escalation che trasforma una questione privata in un caso nazionale. Ma il vero punto di non ritorno, la vera deflagrazione, è la frase che Tony scaglia contro Yasser, una frase-atomica che riassume decenni di odio e dolore: «Magari Ariel Sharon vi avesse sterminati tutti».

Da questo momento, il film si trasforma. Abbandona la strada per chiudersi nell'architettura claustrofobica di un'aula di tribunale, diventando un legal drama teso e implacabile che ricorda, per rigore e intensità, i migliori lavori di Sidney Lumet. Ma se Lumet usava l’aula per scandagliare le falle del sistema giudiziario americano, Doueiri la usa come un acceleratore di particelle storiche. L’aula non è più solo un luogo di giustizia, ma un palcoscenico, un’arena dove il trauma personale di due uomini viene amplificato, sezionato e infine proiettato sulla ferita collettiva del Libano. Ogni arringa degli avvocati (straordinari e speculari, uno giovane e ambizioso, l’altra più anziana, saggia e legata alla vecchia guardia) non cerca la verità fattuale del pugno, ma scava nella genealogia dell’odio, nell'eziologia della rabbia. Il processo non è più a Yasser Salameh, ma alla condizione di rifugiato palestinese. Non è più a Tony Hanna, ma al trauma dei cristiani maroniti durante la guerra civile, all'eredità delle milizie e al massacro di Damour.

Qui risiede il genio di Doueiri, che, non a caso, si è formato come assistente operatore alla corte di Quentin Tarantino. Da lui sembra aver assorbito la capacità di gestire dialoghi affilati come rasoi e di costruire una tensione quasi fisica, ma la applica a un materiale incandescente che è l'esatto opposto del postmodernismo tarantiniano. Se Tarantino gioca con la superficie della storia e della cultura pop, Doueiri affonda le mani nella carne viva della Storia con la S maiuscola. La struttura del film ha la precisione di un teorema e la potenza emotiva di una tragedia greca. Tony e Yasser sono eroi tragici in senso aristotelico, intrappolati dalla loro hamartia, il loro difetto fatale: un orgoglio inscalfibile che è, in realtà, l'ultima corazza a protezione di una dignità costantemente minacciata. Non possono chiedere scusa perché, per loro, scusarsi significherebbe invalidare il proprio dolore, la propria storia, la sofferenza del proprio popolo.

Il parallelismo più calzante, forse, non è tanto con il cinema americano, quanto con le opere del maestro iraniano Asghar Farhadi. Come in Una separazione o Il cliente, un incidente domestico apparentemente minore squarcia il velo delle convenzioni sociali, rivelando le faglie tettoniche morali e politiche che si nascondono appena sotto la superficie. Entrambi i registi sono maestri nell'arte di mostrare come il privato sia inestricabilmente politico, ma Doueiri è, se possibile, ancora più diretto, più esplicito nel collegare il dramma individuale al cataclisma nazionale. La sua Beirut non è uno sfondo, ma un organismo vivente, una città di cicatrici dove i fantasmi della guerra civile (1975-1990) aleggiano ancora in ogni strada, in ogni sguardo, in ogni silenzio carico di sottintesi.

La grandezza de L’insulto sta nella sua imparzialità quasi sovrumana. Il film si rifiuta categoricamente di prendere le parti di qualcuno. Ci mostra le ragioni profonde, viscerali, di Tony, facendoci comprendere la sua rabbia atavica, il suo senso di assedio culturale. E un attimo dopo ci fa sprofondare nell'umiliazione silenziosa e dignitosa di Yasser, un uomo senza terra, senza passaporto, un ingegnere costretto a fare il capocantiere, la cui esistenza è un perenne atto di equilibrio su un filo teso sopra l'abisso dell'irrilevanza. Doueiri non giudica; espone. Mette a nudo la meccanica dell'odio, mostrando come esso si nutra di narrazioni contrapposte e inconciliabili, di dolori che non si riconoscono a vicenda perché troppo impegnati a urlare il proprio.

Meta-testualmente, il film è una profonda riflessione sul potere del linguaggio. L'insulto del titolo non è solo la parola volgare mormorata da Yasser, ma un concetto più vasto. È l'insulto della Storia, l'insulto di una condizione imposta, l'insulto di vedere la propria sofferenza negata o minimizzata. L'intero processo legale diventa una battaglia ermeneutica, un tentativo disperato di definire le parole, di dare un peso legale e morale a un'offesa. Ma come può la legge, con la sua pretesa di oggettività, dirimere una questione che affonda le sue radici nell'irrazionale, nel trauma, nel mito collettivo?

La regia di Doueiri è tesa, nervosa, ma mai sopra le righe. Usa la macchina da presa per creare un senso di costante pressione, alternando i primi piani strettissimi sui volti dei protagonisti – mappe geografiche di dolore e ostinazione – a inquadrature che rivelano come lo spazio intorno a loro si stia progressivamente restringendo. La fotografia accentua i toni caldi e polverosi di Beirut, dando alla città un'aria febbrile, come se fosse perennemente sull'orlo di una crisi di nervi.

Il finale è un capolavoro di ambiguità e speranza fragile. Non c'è catarsi, non c'è una riconciliazione da film hollywoodiano con tanto di abbraccio liberatorio. C'è, invece, uno sguardo. Un semplice, esitante sguardo scambiato tra i due uomini, fuori dall'aula, lontano dai microfoni, dalle telecamere e dagli avvocati. In quello sguardo non c'è perdono, forse neanche comprensione piena, ma c'è un primo, timido barlume di riconoscimento. Un'agnizione. Il riconoscimento dell'altro non come simbolo di un'etnia o di una fazione politica, ma come individuo, come un altro essere umano schiacciato da un peso troppo grande da portare da solo.

L’insulto è cinema politico nel senso più alto e nobile del termine: non un pamphlet, non un comizio, ma una disamina complessa e dolorosa della condizione umana. Ci ricorda che le grandi tragedie della Storia non sono fatte solo di battaglie e trattati, ma anche di tubi che gocciolano, di sguardi storti e di scuse negate. È un film che scava così a fondo in un conflitto specifico e locale da diventare universale, parlandoci di ogni muro, fisico o psicologico, che l'uomo ha costruito per difendere il proprio orgoglio, finendo per imprigionare la propria umanità. Un'opera necessaria, lancinante e di rara intelligenza. Un capolavoro.

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