L'Ultima Risata
1924
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Regista
Murnau, in un voltafaccia audace quanto geniale, abbandona gli stilemi gotici e le fosche atmosfere di capolavori come Nosferatu per calarsi in un realismo crepitante, in cui ogni inquadratura è iconografia dinamica di una narrazione asservita alle immagini, alle espressioni, ai volti della gente. Ma in qualche modo va oltre il semplice realismo veristico, penetrando nell'animo del protagonista e rappresentando le sue emozioni in modo viscerale e intenso. Non si tratta più solo di dipingere la realtà esterna, quanto di rendere tangibile la sua risonanza interiore, un approccio che lo iscrive a pieno titolo nel filone del Kammerspielfilm, il "cinema da camera" tedesco, votato all'indagine psicologica intima e alla drammaturgia focalizzata su pochi personaggi e ambienti. Il regista tedesco, attraverso questa storia di ordinaria caduta, guarda la sua Germania e ne traccia un impietoso quadro sociale, criticandone ferocemente il crescente individualismo, l'ossessione per lo status e la massificazione delle idee, un vero e proprio specchio delle nevrosi della Repubblica di Weimar, dilaniata tra il progresso industriale e l'ancoraggio a rigide gerarchie sociali. La vicenda, non a caso, è ispirata al racconto di Gogol “Il Cappotto”, archetipo letterario dell'uomo annientato dalla burocrazia e dall'indifferenza sociale, e affidata alla sceneggiatura di Carl Mayer. Quest'ultimo, figura chiave dell'espressionismo cinematografico tedesco e già collaboratore di Murnau per L'Ultima Notte, ne traspone le atmosfere surreali e il fatalismo amaro calandole con lucidità quasi chirurgica nella realtà tedesca post-bellica, conferendo alla vicenda una risonanza universale e al contempo specificamente calata nel proprio tempo.
Un portiere d’albergo, maestoso nella sua divisa impeccabile, regna su un mondo di facchini, di tassisti e di fattorini, un microcosmo sociale in cui la gerarchia è scandita da uniformi e funzioni. Murnau racconta la sua tragica parabola: la storia di un uomo fiero e orgoglioso della sua uniforme, simbolo del suo status sociale, baluardo contro l'anonimato e strumento per elevarsi al di sopra della marmaglia che lo circonda. Quando viene degradato a pulire i bagni, perdendo così ogni vestigio della sua dignità e la sua stessa “pelle” sociale, il mondo crolla intorno a lui. La perdita dell'uniforme, che per lui rappresentava molto più di un semplice indumento – era il suo scudo, la sua identità e la sua ragion d'essere nell'ordine prestabilito – lo priva di ogni appiglio e lo relega ai margini di una società implacabile. Contrariamente a un uso tradizionale dei flashback, che avrebbero spezzato il flusso narrativo, il film esplora il suo mondo interiore non attraverso rievocazioni didascaliche del passato, ma con un uso rivoluzionario della macchina da presa. Murnau dispiega qui la sua celebre "entfesselte Kamera" (camera slegata), che si muove con una libertà inedita, seguendo il protagonista in spazi ristretti, salendo e scendendo scale, persino penetrando la sua mente in sequenze oniriche e allucinatorie che riflettono il suo turbamento, la sua vergogna, la sua caduta psicologica. Questa innovazione tecnica permette al regista di esprimere la soggettività del personaggio senza l'ausilio di didascalie, rendendo le sue emozioni palpabili e la sua disperazione contagiosa. La caduta del protagonista è raccontata con una lente d'ingrandimento impietosa, sottolineando l'importanza spesso crudele che la società attribuisce all'apparenza e allo status sociale, elementi che possono definire o annientare l'individuo. La pellicola si conclude con una scena che, pur nella sua toccante e amara immediatezza, non manca di generare dibattito. Il celebre "lieto fine" posticcio e ironico, spesso interpretato come un'imposizione dello studio per ammorbidire la drammaticità del racconto, finisce per trasformarsi in una beffa ulteriore, una "ultima risata" non del protagonista ma del destino stesso o di un'ironia cosmica, lasciando nello spettatore un profondo senso di malinconia e di disillusione, ancor più acre per via di quella forzata, quasi sarcastica, redenzione finale.
Murnau eredita da Gogol il tema dell'alienazione sociale e dell'umiliazione subita da un individuo ai margini della società, ma lo amplifica e lo arricchisce con elementi visivi e simbolici propri dell'espressionismo tedesco. L'atmosfera cupa e opprimente del film, la deformazione quasi impercettibile ma pervasiva delle figure e degli spazi – attraverso un uso sapiente delle scenografie, delle luci e delle ombre, che si stringono attorno al protagonista come un cappio – sono tutti elementi che rimandano alla poetica gogoliana del grottesco e del disagio esistenziale, ma che vengono riletti e reinventati attraverso la lente dell'estetica espressionista. Qui, gli spazi urbani non sono semplici fondali, ma veri e propri personaggi che interagiscono con il dramma umano. La città diventa un'entità tentacolare, con i suoi edifici imponenti e le sue strade affollate che amplificano l'alienazione e la solitudine dell'individuo, inghiottito dal suo stesso ambiente. In definitiva, L'ultima risata non è una semplice trasposizione cinematografica de "Il cappotto", ma un'opera autonoma che dialoga in modo profondo e complesso con il testo originale, offrendo al pubblico una nuova e originale interpretazione di un tema universale: la fragilità dell'identità in un mondo che mercifica la dignità umana. Con questo film, Murnau porta in scena la cancellazione dell'individuo ad opera di forze per lui soverchianti e irraggiungibili – il giudizio sociale, la burocrazia impersonale, il peso schiacciante delle convenzioni – una declinazione narrativa che in futuro sarebbe stata ripresa da numerosi altri registi, da Chaplin a Kafka, da Fritz Lang in M al cinema neorealista italiano che pure indagò la sorte degli umili, fino a influenzare opere distopiche e allegoriche come Brazil di Terry Gilliam. L'opera di Murnau, quindi, non si limita a essere un capolavoro del suo tempo, ma si erge a autentico archetipo della narrazione cinematografica sull'uomo comune contro il Leviatano sociale, rendendola un faro per intere generazioni di cineasti.
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