Ombre malesi
1940
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Regista
Non iniziate questo film se non siete pronti a sudare. Ombre Malesi (The Letter) non è un dramma giudiziario; è un bagno turco morale, un Kammerspiel tropicale dove l'umidità della giungla malese si fonde con la miasma della menzogna. William Wyler, qui al suo vertice di formalista spietato, non dirige: soffoca. Dimenticate il "Wyler Touch" come sinonimo di prestigio e buon gusto (quello arriverà con La signora Miniver). Questo è Wyler l'entomologo, che intrappola i suoi personaggi in una mise-en-scène claustrofobica, utilizzando la profondità di campo (grazie al genio di Tony Gaudio) non per aprire il mondo, ma per comprimerlo, per schiacciare i personaggi contro la scenografia, contro il loro stesso destino. Il caldo non è uno sfondo; è un protagonista attivo, un sudario viscoso che avvolge ogni cosa.
Il film si apre con una delle dichiarazioni d'intenti più potenti della storia del cinema. Non una scena, ma un prologo semiotico. Una carrellata lenta, quasi indolente, attraverso una piantagione di caucciù. La luna (un leitmotiv visivo che diventerà l'occhio impassibile di Dio) illumina le foglie. Un lavorante nativo dorme su un'amaca. La civiltà (la casa coloniale) è addormentata. Poi, il silenzio è lacerato. Uno sparo. Un altro. Un uomo (Geoffrey Hammond) inciampa fuori dalla veranda e crolla. E dopo di lui, lei. Leslie Crosbie (Bette Davis). Non corre, non urla. Cammina, con una calma glaciale, svuota il caricatore sull'uomo a terra, e solo dopo si ferma, come se si risvegliasse da un sogno. In questo singolo, magistrale piano sequenza, Wyler ci ha già detto tutto: la calma apparente della civiltà coloniale, la violenza primordiale che cova sotto, e la menzogna che sta per essere costruita.
Questo è il palcoscenico di Bette Davis. E Wyler, noto per la sua ossessiva ricerca della "verità" attraverso dozzine di take (il famoso "Orecchio di Wyler"), opera un miracolo: spoglia la Davis dei suoi manierismi più incendiari (niente crisi isteriche à la Jezebel) per rivelare qualcosa di molto più terrificante: il controllo assoluto. La Leslie Crosbie della Davis è un rettile a sangue freddo, un capolavoro di repressione calcolata. La sua arma non è la pistola, è il pizzo. Wyler la filma costantemente mentre lavora all'uncinetto, i suoi ferri che si muovono con precisione ritmica, un'attività simbolo di virtù domestica che diventa la metafora visiva della rete di bugie che sta tessendo. È lei l'unica cosa fredda dell'intera Malesia. Mentre gli uomini intorno a lei sudano, si sventolano e si sciolgono (moralmente e fisicamente), lei siede eretta, composta, un iceberg di ipocrisia borghese.
La trama, tratta da un racconto e da una pièce di W. Somerset Maugham (il cronista supremo della dissoluzione morale dell'Impero Britannico), è costruita su una menzogna che può esistere solo in quel contesto. Leslie afferma di aver agito per legittima difesa, per proteggere il suo onore di donna bianca dall'aggressione di un Hammond ubriaco. In un istante, l'intero apparato coloniale—la polizia, l'amministrazione, la giustizia—si mobilita non per trovare la verità, ma per proteggere il simbolo. Devono credere alla sua storia, perché mettere in dubbio l'onore di una donna bianca significherebbe mettere in dubbio le fondamenta stesse della loro superiorità morale, la giustificazione della loro presenza lì. Ombre Malesi è una critica feroce, anche se forse inconscia per il pubblico del 1940, dell'ipocrisia del "Fardello dell'Uomo Bianco", dove la "civiltà" è solo una facciata sottile come la veranda della casa.
Il film è popolato da uomini che sono, a vario titolo, strumenti o vittime di questa facciata. C'è l'avvocato, Howard Joyce (un superbo James Stephenson, che ottenne una candidatura all'Oscar), l'uomo della logica e della legge, il "risolutore" pragmatico. Quando la prova della colpevolezza di Leslie—la lettera del titolo, un MacGuffin che è il peso morto dell'intero film—emerge, il suo compito non è più servire la giustizia, ma orchestrare l'insabbiamento. Diventa il complice della corruzione, e la sua discesa morale è segnata dal sudore sulla sua fronte. Ma la vera vittima, l'epicentro della tragedia, è il marito, Robert Crosbie (Herbert Marshall). E qui il film compie un atto di genio meta-testuale: Marshall, nell'adattamento del 1929, interpretava l'amante (il ruolo di Hammond). Qui, è il marito tradito. È l'uomo buono, semplice, onesto, completamente cieco al marcio che ha in casa. È l'incarnazione della fiducia mal riposta. La sua tragedia non è solo essere stato tradito, ma essere costretto a comprare la prova di quel tradimento, usando ogni centesimo del suo patrimonio per salvare non la vita della moglie, ma la sua stessa illusione. È un guscio vuoto, un uomo rovinato finanziariamente e spiritualmente.
Il perno morale del film è la donna che non parla quasi mai: Mrs. Hammond (Gale Sondergaard). Se Leslie è la luce fredda e artificiale della civiltà occidentale, Mrs. Hammond è l'ombra del titolo. È l'Altro esotico, la moglie cinese/eurasiatica che l'establishment coloniale finge non esista. In linea con l'Orientalismo dell'epoca, è presentata come misteriosa, drappeggiata in chiaroscuro, quasi spettrale. Eppure, detiene tutto il potere. È lei che ha la lettera. La scena in cui Leslie è costretta a lasciare la sicurezza della sua bolla coloniale per avventurarsi nel quartiere "nativo"—un labirinto di ombre, perline e sguardi ostili—per comprare la lettera è la sua discesa agli inferi. È un capolavoro di umiliazione. La "Regina" bianca, la padrona della piantagione, è costretta a inginocchiarsi (metaforicamente) ai piedi della donna che ha reso vedova, a subire il suo sguardo di puro odio silenzioso, gettando la lettera ai suoi piedi come un osso. È il momento in cui l'ipocrisia viene messa a nudo.
Il finale è un capolavoro di compromesso artistico, dettato dal Codice Hays. Nella storia di Maugham, Leslie la fa franca, anche se è condannata a vivere con un marito che sa. Per la Hollywood del 1940, l'omicida (e adultera) doveva pagare. E così, Wyler orchestra un'esecuzione rituale. Leslie, dopo la sua agghiacciante confessione a Robert ("Io amo ancora l'uomo che ho ucciso!"), non può più nascondersi dietro il pizzo o la legge. La sua passione, finalmente ammessa, è un cancro che l'ha consumata. Esce nel giardino, non più protetta dalla casa, ed entra nel territorio delle "ombre". La luna, l'occhio che ha visto tutto all'inizio, ora la illumina per i suoi carnefici. L'omicidio di Leslie per mano degli uomini di Mrs. Hammond non è solo giustizia, è un riequilibrio cosmico. È la giungla, il mondo primordiale che la sua civiltà cercava di sopprimere, che si riprende ciò che le spetta. Ombre Malesi rimane un'autopsia perfetta della menzogna, un film dove ogni fotogramma è denso di significato e ogni ombra è più pesante della realtà.
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