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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Il messaggio

1976

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Affrontare la narrazione della nascita di una fede monoteista, aniconica per dogma e per essenza, attraverso il più iconico dei linguaggi, il cinema, è una scommessa prometeica, un'ossimoro artistico che sfiora la blasfemia concettuale. Eppure, è proprio in questo apparente cortocircuito teologico-visivo che Moustapha Akkad scolpisce il suo capolavoro, "Il Messaggio", un'opera che trascende il genere del kolossal storico-religioso per diventare un saggio quasi metafisico sulla rappresentazione dell'irrappresentabile. Il film si regge su un vuoto, un'assenza calcolata che diventa il suo centro di gravità narrativo ed estetico: il profeta Maometto non viene mai mostrato, né la sua voce udita direttamente. Un divieto che Akkad non aggira, ma che trasforma in un dispositivo di regia di folgorante intelligenza.

La soluzione è la soggettiva, ma non quella voyeuristica del noir o quella disorientante dell'horror. Qui la macchina da presa è il Profeta. Noi, spettatori, guardiamo attraverso i suoi occhi, siamo il punto di fuga verso cui convergono gli sguardi degli altri personaggi. Quando Hamza, lo zio guerriero interpretato da un Anthony Quinn tellurico e carismatico, parla al nipote, si rivolge a noi. Quando i primi seguaci si convertono, la loro fede si manifesta in un dialogo diretto con l'obiettivo. Questa scelta radicale produce un effetto di vertigine rappresentativa: non siamo semplici osservatori di un evento storico, ma veniamo investiti del ruolo di catalizzatore sacro della narrazione. Il film ci costringe a incarnare l'assenza, a diventare il fulcro invisibile di un mondo che sta cambiando per sempre. È un'immersione che ricorda, per arditezza formale, la soggettiva totale di Robert Montgomery in "Una donna nel lago", ma spogliata del suo intento "gimmick" e caricata di un peso spirituale incalcolabile.

La struttura è quella del grande epos hollywoodiano, un diretto discendente dei kolossal biblici di Cecil B. DeMille. Come ne "I Dieci Comandamenti", assistiamo alla genesi di un popolo attraverso la persecuzione, l'esodo (l'Egira dalla Mecca a Medina) e la battaglia finale per la terra promessa. Maurice Jarre, già cantore delle sabbie con la sua partitura per "Lawrence d'Arabia", firma una colonna sonora che non sfigurerebbe in un'opera di David Lean, conferendo all'arido paesaggio desertico un afflato epico e struggente. Eppure, sotto la pelle del peplum, pulsa un cuore inaspettato: quello del western crepuscolare. I primi musulmani, reietti e perseguitati nella Mecca opulenta e corrotta, sono una banda di fuorilegge morali, uniti non dal sangue ma da un'idea rivoluzionaria. La loro fuga verso Medina è la quintessenza del viaggio verso una nuova frontiera, un luogo dove fondare una società basata su principi nuovi. Hamza, con la sua lealtà fiera e la sua abilità guerriera, è un archetipo a metà tra un capo Apache e un pistolero redento che abbraccia la causa dei contadini oppressi.

La grandezza dell'operazione di Akkad risiede anche nella sua titanica ambizione produttiva, un'odissea essa stessa degna di un film. Conscio di dover parlare a due mondi, il regista siriano-americano girò contemporaneamente due versioni della stessa pellicola: una in inglese con un cast internazionale ("The Message", con Quinn e Irene Papas) e una in arabo con attori del mondo arabo ("Al-Risālah"). Un dittico speculare, un esperimento di traduzione culturale e cinematografica senza precedenti. Anthony Quinn, che aveva già incarnato l'outsider beduino in "Lawrence d'Arabia" e il contadino greco dal vitalismo dionisiaco in "Zorba", presta a Hamza una fisicità debordante, un'aura da patriarca omerico che funge da ponte perfetto per il pubblico occidentale. Al suo fianco, Irene Papas è una Hind di tragica, furiosa intensità, una Clitemnestra del deserto la cui vendetta contro Hamza assume i contorni di un rito pagano destinato a essere spazzato via dalla nuova fede.

Il film è una meditazione profonda sul potere della Parola. In un universo dominato da idoli di pietra, interessi commerciali e leggi tribali, l'Islam irrompe come un evento primariamente acustico: una recitazione, un messaggio sussurrato e poi gridato. La violenza dei Quraysh non è diretta solo contro le persone, ma contro le parole che esse portano. La tortura del primo martire, Bilal l'abissino, costretto a giacere su sabbie roventi con un masso sul petto, è un tentativo di soffocare fisicamente la sua professione di fede, "Ahadun Ahad" ("Uno, Uno solo"). È il Verbo che si fa carne e che, per questo, diventa bersaglio. In questo, "Il Messaggio" si allontana dalla spettacolarità del miracolo visivo tipico del cinema biblico (le acque che si aprono, i roveti ardenti) per concentrarsi sulla potenza sovversiva e aggregante di un'idea astratta.

Akkad inserisce la sua opera nel contesto geopolitico degli anni '70 con la chiara intenzione di agire da "ponte culturale". In un decennio segnato dalla crisi petrolifera e da una crescente incomprensione tra Occidente e mondo arabo-islamico, il film fu un atto di diplomazia culturale audace, finanziato in parte dalla Libia di Gheddafi dopo che i capitali di Hollywood si erano ritirati. È un tentativo di raccontare una storia fondativa "dall'interno", ma usando il linguaggio universale e comprensibile del grande cinema popolare. Akkad non fa agiografia militante; la sua è una messa in scena rigorosa, quasi documentaristica nelle sue fasi iniziali, che mostra la fragilità, i dubbi e il costo umano della nascita di una fede. Le battaglie di Badr e Uhud sono girate con una perizia tattica e una brutalità fisica che anticipano il realismo di molto cinema bellico successivo, sottolineando come la fede dovesse essere difesa con il sangue e con l'acciaio.

L'estetica del film è un trionfo di composizione e contenimento. La fotografia di Jack Hildyard cattura la vastità opprimente e purificatrice del deserto, che diventa non solo uno sfondo ma un attore, un crogiolo in cui la vecchia società tribale viene fusa per forgiare la nuova Ummah, la comunità dei credenti. La scelta di non mostrare il Profeta, nata da un imperativo teologico, si rivela la più potente delle intuizioni estetiche. È un esercizio di teologia negativa applicata alla mise-en-scène: si definisce il sacro attraverso la sua assenza, si percepisce la sua grandezza dall'impatto che ha su chi lo circonda. Il volto di Maometto è il volto estasiato di un seguace, la sua mano è la mano tesa di un alleato, la sua casa è una porta aperta attraverso cui la macchina da presa entra. Akkad, da demiurgo laico, comprende che mostrare l'ineffabile ne diminuirebbe la potenza.

"Il Messaggio" rimane un oggetto cinematografico unico, un kolossal quasi impossibile che riesce a essere al contempo un'introduzione didattica per i non iniziati e un'epopea avvincente per chiunque ami il grande racconto. È un film che parla di fede senza mai imporla, che mostra la storia senza pretendere di essere l'unica verità, e che riesce, nel miracolo laico del cinema, a dare un corpo visibile a una narrazione che rifiuta le immagini. Un'opera che, a quasi cinquant'anni dalla sua uscita, conserva intatta la sua maestosità formale e la sua coraggiosa, radicale intelligenza artistica.

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