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L'Isola Nuda

1960

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A volte veniamo messi dinanzi ad opere che ci colpiscono con la semplice forza delle immagini, una sorta di ineluttabile energia iconica capace di sovrastarci e catturarci. Questo film di Kaneto Shindô ne è forse l’esempio più nitido. Un’opera che non ha bisogno di parole, si staglia come un monolite contro l’orizzonte e ci attanaglia con la sua imponente massa oscura. Questa supremazia dell’immagine sulla parola, cifra stilistica quasi radicale, eleva il film a una forma di cinema puro, debitore forse ai fasti del muto o alle esplorazioni più audaci dell’avanguardia, dove il significato scaturisce direttamente dalla composizione visiva e dal ritmo dei gesti. L'Isola Nuda, o meglio Hadaka no Shima nel suo titolo originale, è infatti un'opera quasi anomala nel panorama del cinema sonoro, un saggio di estetica minimalista e allo stesso tempo monumentale. Il suo essere 'nuda' non si riferisce solo all'asperità del luogo, ma anche alla sua spoglia essenza narrativa, alla nudità emotiva dei suoi protagonisti, alla verità cruda e non mediata che essa riverbera. Già dalle prime fulminanti immagini che scorrono si vive come un senso di sospensione, uno straniamento estetico che ci proietta in questo microcosmo dove Kaneto Shindo muove i suoi personaggi.

Una donna risale con fatica immane un pendio di una piccola isola trasportando un bilanciere con due enormi secchi d’acqua. Lo sforzo profuso è talmente palpabile che diviene entità fisica in primo piano. Il suo è un Calvario quotidiano, una reiterazione di sforzi titanici che elevano il gesto banale del procacciare acqua a rito sacro, a metafora esistenziale. Non a caso, il film, pur essendo sonorizzato con una precisione quasi maniacale che ne esalta ogni scricchiolio e ogni respiro affannoso, rinuncia quasi completamente ai dialoghi. Le parole sarebbero superflue, ridondanti, persino offensive dinanzi alla eloquenza del corpo piegato, dei muscoli tesi, del sudore che imperla la fronte. Questa scelta stilistica, lungi dall'essere una limitazione, diviene la forza propulsiva di Shindô, che ci costringe a leggere l'anima dei suoi personaggi attraverso l'azione, l'espressione tacita, il logorio inesorabile della fatica. Il Sisyphus di Camus troverebbe in questa donna un'alter ego cinematografica, condannata a un'eterna ascesa, ma con una dignità silente che travalica la pura sofferenza. Seguendo il suo Calvario il regista ricostruisce la dura vita di una famiglia giapponese di quattro persone (Padre, Madre e due figli) che abita questo scoglio nel Pacifico dove, sfidando una Natura atavica, si arrabatta per sopravvivere. Questo scorcio di vita su uno scoglio inabitato del Seto Inland Sea, in un Giappone post-bellico che cercava la propria rinascita anche attraverso il ritorno alle forme più elementari di sussistenza, diviene un affresco universale sulla condizione umana. La Natura, qui, non è matrigna nel senso romantico del termine, ma una forza primordiale e indifferente, alla quale l'uomo si adatta con una resilienza quasi disperata. Le terrazze ricavate con fatica sulla roccia, i sentieri tortuosi scolpiti dal tempo e dallo sforzo, le imbarcazioni che tagliano il blu metallico del mare, non sono solo dettagli di scena, ma testimonianze silenziose di un'ostinata lotta per la mera sopravvivenza, un dramma muto che si consuma tra l'infinita vastità del cielo e l'implacabile durezza della terra. A causa della mancanza d’acqua sono costretti, per irrigare coltivazioni ricavate da erte terrazze a picco sul mare, a fare la spola con una barchetta verso un’isola vicina. Ogni giorno trasportano acqua, generi che barattano con il ricavato della terra, conducendo i due figli a studiare nell’isola vicina.

Ma un terribile evento sembra squarciare questa vita di stenti e sacrifici: il figlio più grande si ammala e muore per mancanza di cure adeguate. La moglie, personaggio chiave della vicenda, ha un moto di ribellione e sembra gridare la sua amara frustrazione contro il marito che l’ha condotta in quel remoto luogo dimenticato da Dio, un disperata insurrezione contro un’aspra Natura, contro la crudeltà di un Destino beffardo e cinico. Il grido silenzioso della moglie, il suo scuotere il marito con una violenza improvvisa, quasi atavica, è il momento di rottura più lacerante dell’intera pellicola. Non è un urlo udibile, ma una scarica di rabbia e dolore che si manifesta in gesti scomposti, in un'esplosione fisica che rompe la rigidità, l'austera compostezza fino ad allora mantenuta. È il culmine di un'accumulazione di sofferenze, un punto di non ritorno emotivo che, per un attimo fugace, minaccia di far crollare l'intero fragile equilibrio della loro esistenza. Eppure, proprio in questa apparente ribellione, si manifesta la grandezza tragica del film: l'ineluttabilità del destino non ammette deviazioni. Il suo, tuttavia, è null’altro che un dissidio infinitesimale, un’eversione microscopica che si perde nell’infinità dell’Oceano, nel correre via del Blu marino intrecciato ad un Cielo cobalto. Quel moto di ribellione, pur potentissimo nella sua espressione visiva e nel suo impatto emotivo, si risolve in un ritorno all’ordine, a quella stessa routine che sembrava aver frantumato. Poi tutto riprende immutabile, eterno, ineluttabile: senza un’ombra di speranza, di pallida redenzione. La mano che ricomincia a zappare la terra, il corpo che riprende il ritmo incessante della fatica, sono il sigillo di una rassegnazione che non è debolezza, ma la più alta forma di resilienza umana di fronte all’implacabile e ciclica danza della vita e della morte. È un fatalismo amaro, certo, ma intriso di una dignità indomita.

Meraviglioso l’intimo verismo di questa pellicola nel rendere la vita quotidiana della famiglia nei suoi caparbi metodi di coltivazione, nelle sue mansioni quotidiane fatte di attrezzi autocostruiti, di ingegnosi depositi d’acqua, di un continuo e laborioso compromesso tra Anima e Natura. Questo 'intimo verismo' non è mai documentaristico nel senso freddo del termine, ma è intriso di una profonda e commovente umanità. La regia di Shindô è di una precisione quasi coreografica, ogni movimento, ogni gesto, dalla preparazione del cibo alla scrupolosa irrigazione delle piante, è orchestrato con una meticolosità che eleva il quotidiano a sublime. La fotografia in bianco e nero di Kiyomi Kuroda, con i suoi contrasti netti e la sua capacità di catturare la texture della roccia, la fluidità dell'acqua e la potenza del paesaggio, contribuisce a creare un'atmosfera senza tempo, quasi mitica. La quasi totale assenza di musica non diegetica amplifica questo effetto, lasciando che siano i suoni ambientali – il fruscio del vento, lo sciabordio delle onde, il cozzare dei secchi – a costruire la colonna sonora di questa esistenza elementare. Shindo, con questa sua opera dimostra di essere non soltanto uno dei più grandi e prolifici sceneggiatori del Cinema Giapponese (la sua collaborazione con Mizoguchi divenne leggendaria), ma uomo di Cinema completo e sensibile, un grande artista che seppe conquistarsi un posto di rilievo nella storia della cinematografia nipponica. Shindô, figura complessa e prolifica del cinema giapponese, capace di spaziare dal realismo brutale di quest’opera ai toni quasi horror e sovrannaturali di capolavori successivi come Onibaba o Kuroneko, si rivela qui nel suo aspetto più puro e radicale. L'Isola Nuda non è solo un film sulla sopravvivenza, ma una meditazione universale sulla fatica, la perdita e l’ostinata continuità della vita, un capolavoro che rimane impresso nella memoria per la sua capacità di parlare all’anima senza bisogno di proferire una sola parola, e di trascendere la sua specifica ambientazione per toccare corde profondamente umane e senza tempo.

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