Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

This Is Spinal Tap

1984

Vota questo film

Media: 4.50 / 5

(4 voti)

Regista

L'arte del documentario, nella sua forma più pura, si prefigge di catturare una scheggia di realtà, di ordinarla in una narrazione e di presentarla come Verità. This Is Spinal Tap compie un'operazione infinitamente più sovversiva e, per certi versi, più onesta: costruisce una menzogna così meticolosamente verosimile da rivelare una verità più profonda sulla natura stessa dello spettacolo, dell'ego maschile e del fragoroso, glorioso nonsenso del rock and roll. L'opera di Rob Reiner non è una semplice parodia; è un trattato di semiotica mascherato da commedia, un'esplorazione della linea sottile che separa il mito dalla sua caricatura, un confine che, nel mondo dell'heavy metal degli anni '70 e '80, era già talmente labile da risultare quasi invisibile.

Il film si presenta come l'opera del documentarista Marty DiBergi (interpretato dallo stesso Reiner, in una mossa di genio meta-narrativo), intento a seguire il tour americano di una leggendaria ma declinante band britannica, gli Spinal Tap. Il colpo di grazia del film risiede nella sua forma. Reiner e i suoi co-sceneggiatori e attori principali—Christopher Guest (Nigel Tufnel), Michael McKean (David St. Hubbins) e Harry Shearer (Derek Smalls)—non si limitano a imitare i rock-documentary dell'epoca, come The Last Waltz di Scorsese o Gimme Shelter dei fratelli Maysles. Ne assorbono il DNA, ne replicano la grammatica visiva con una precisione quasi clinica: la camera a mano che insegue i musicisti nei labirintici corridoi dei backstage, le interviste in primo piano dove l'auto-indulgenza si mescola a un'ingenuità disarmante, i frammenti di esibizioni dal vivo carichi di un'energia tanto autentica quanto ridicola. L'effetto è quello di un pastiche perfetto, un'opera che, se vista senza contesto, potrebbe essere scambiata per un documento reale. E, infatti, molti lo fecero. Questa confusione tra finzione e realtà non è un semplice effetto collaterale, ma il cuore pulsante del progetto: il film dimostra che il linguaggio del "vero" è esso stesso una costruzione, un codice che può essere decodificato e replicato per servire la commedia più sublime.

La band stessa è un archetipo distillato, un concentrato purissimo di tutti i cliché del rock. David St. Hubbins, il frontman "poeta", e Nigel Tufnel, il chitarrista "virtuoso", formano un dioscuro rock and roll la cui dinamica di amore fraterno e rivalità tossica ricorda le coppie creative più celebri, da Lennon/McCartney a Jagger/Richards, filtrate però attraverso la lente di una totale assenza di auto-consapevolezza. Le loro discussioni, quasi interamente improvvisate, raggiungono vette di idiozia che sfiorano il filosofico. La celeberrima scena degli amplificatori che "vanno fino a undici" non è solo una gag memorabile; è un manifesto programmatico. L'undici di Nigel non rappresenta un volume più alto, ma un superamento simbolico del limite, un desiderio di eccesso per l'eccesso stesso, privo di qualsiasi logica pratica. È la quintessenza del rock come gesto puro, un'affermazione di potenza che trascende la razionalità. È, in un certo senso, il corrispettivo sonoro del Monolito di 2001: Odissea nello spazio: un oggetto che significa di più, semplicemente perché è di più.

Il film è costellato di questi momenti di sublime stupidità che fungono da metafore per il collasso di un'intera estetica. La miniatura di Stonehenge, alta diciotto pollici invece di diciotto piedi a causa di un'indicazione scritta male su un tovagliolo, è la rappresentazione plastica del divario incolmabile tra l'ambizione titanica (evocare antichi miti druidici sul palco) e la misera esecuzione. È un disastro che riecheggia i fallimenti epici di certi registi megalomani, come il Werner Herzog di Fitzcarraldo che trascina una nave su una montagna, ma qui la tragedia è interamente comica, la lotta dell'uomo contro la natura sostituita dalla lotta dell'uomo contro la propria inettitudine. I titoli delle loro canzoni ("Big Bottom", "Sex Farm"), le copertine degli album censurate (Smell the Glove), la serie di batteristi morti in circostanze bizzarre (autocombustione spontanea, un "bizzarro incidente di giardinaggio"): ogni dettaglio è una pennellata precisa in un ritratto grottesco ma affettuoso di un genere musicale che aveva trasformato l'auto-parodia in una forma d'arte prima ancora che Reiner la filmasse.

In questo senso, gli Spinal Tap sono figure profondamente quixotiche. Come il cavaliere di Cervantes, vivono in un mondo interamente costruito dalla loro immaginazione, dove sono ancora Dei del Rock osannati da folle oceaniche, anche quando si esibiscono in un parco a tema o fanno da gruppo di spalla a uno spettacolo di marionette. La loro realtà è costantemente minacciata dal mondo esterno—manager incompetenti, fidanzate yoko-onesche, recensioni negative—ma la loro fede nella propria mitologia è incrollabile. Si perdono letteralmente nei sotterranei di un'arena di Cleveland, incapaci di trovare il palco: una metafora perfetta e quasi dolorosa della loro carriera, persa in un labirinto di ambizioni passate e di un presente che non riescono più a decifrare. La loro tragedia non è quella di essere diventati irrilevanti, ma di non essersene accorti.

Uscito nel 1984, in pieno edonismo reaganiano e all'apice del dominio di MTV, This Is Spinal Tap funge da commentario culturale acutissimo. Mentre band come i Mötley Crüe e i Poison portavano l'estetica del glam metal all'estremo, rendendo quasi impossibile distinguere la realtà dalla sua caricatura, il film di Reiner agiva come uno specchio deformante ma veritiero. Non condanna il genere, anzi, ne coglie la sincerità infantile, l'impegno totale in una fantasia di potere, sesso e decibel. È un'elegia per un'era di eccessi che stava per essere spazzata via dalla sincerità disadorna del grunge. Kurt Cobain, non a caso, era un grandissimo fan del film, riconoscendone la precisione nel demolire l'artificiosità che il suo stesso movimento si proponeva di distruggere.

Ma il trionfo definitivo di This Is Spinal Tap è la sua vita oltre lo schermo. Come un personaggio di un racconto di Borges che prende vita e fugge dalle pagine, la band è diventata reale. Guest, McKean e Shearer hanno pubblicato album, tenuto concerti (incluso uno memorabile alla Royal Albert Hall) e sono apparsi in eventi televisivi come i Simpson. La finzione ha fagocitato la realtà, completando il cortocircuito semiotico iniziato dal film. La parodia è diventata l'oggetto stesso della parodia, in un loop infinito che dimostra la potenza performativa del cinema. Il mockumentary non era più solo un genere, ma un processo demiurgico capace di generare i propri miti. Senza This Is Spinal Tap, l'intera tradizione della commedia documentaristica, dalle opere successive di Christopher Guest (Waiting for Guffman, Best in Show) a serie come The Office o Parks and Recreation, sarebbe semplicemente impensabile. Ha fornito un nuovo linguaggio per esplorare la comicità che si annida nell'ordinario, nel patetico e nell'auto-inganno.

This Is Spinal Tap rimane un'opera fondamentale non perché fa ridere—cosa che fa, in modo quasi doloroso—ma perché usa la risata come un bisturi per sezionare i meccanismi della fama, la costruzione dell'identità artistica e la nostra stessa relazione con la "realtà" mediata. È un film che va fino a undici, non per il volume, ma per l'intelligenza, la preveggenza e l'impatto culturale. È un capolavoro la cui eco, a decenni di distanza, risuona ancora forte, chiara e gloriosamente stupida.

Generi

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6
Immagine della galleria 7
Immagine della galleria 8

Commenti

Loading comments...