Tirate sul pianista
1960
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Regista
Un film-scherzo, un noir suonato con la leggerezza di un'improvvisazione jazz e la malinconia di una sonata di Satie. François Truffaut, fresco del successo quasi neorealista de I 400 colpi, compie con la sua opera seconda una virata a 180 gradi, un deliberato atto di sabotaggio delle aspettative e una dichiarazione d'amore appassionata e iconoclasta per il cinema stesso. Tirate sul pianista è un oggetto cinematografico anomalo, un cortocircuito semiotico in cui la tragica fatalità del polar americano si scontra con la Nouvelle Vague più sbarazzina e intellettuale, generando una creatura ibrida, tanto esilarante quanto, alla fine, profondamente triste. Il film è l'equivalente filmico di un romanzo di Raymond Queneau riletto da un Jean-Luc Godard in vena di scherzi, ma con il cuore sanguinante di un Nicholas Ray.
Al centro di questo caos controllato c'è Charlie Kohler (un sublime Charles Aznavour), pianista in un malfamato bistrot parigino. Ma Charlie è un fantasma, un nome fittizio per Édouard Saroyan, un tempo concertista di fama internazionale ritiratosi dalle scene dopo il suicidio della moglie. La sua fuga dal passato, dal successo e dal dolore lo ha confinato in un limbo di mediocrità autoimposta, un esilio interiore dove l'unica legge è la non-interferenza. È un eroe passivo, un parente stretto dei personaggi di Camus, un "étranger" nel suo stesso film, la cui principale modalità di interazione col mondo è una timidezza che sfocia nella paralisi. A differenza dei duri protagonisti del noir americano che affrontano il destino a viso aperto, Charlie cerca di scansarlo, di mimetizzarsi. I suoi pensieri, che sentiamo costantemente in voce fuori campo, non sono le riflessioni ciniche di un Philip Marlowe, ma un torrente di insicurezze, autoanalisi nevrotiche e giustificazioni puerili. È un Amleto da piano-bar, un uomo che pensa troppo e agisce troppo poco, la cui tragedia non nasce da una colpa ma da una fondamentale inadeguatezza all'azione.
Truffaut orchestra questa storia, tratta dal romanzo Down There del maestro pulp David Goodis, non come un adattamento fedele, ma come un pretesto per una serie di variazioni sul tema. Smonta pezzo per pezzo la grammatica del genere gangsteristico per poi riassemblarla in modo imprevedibile. La tensione viene costantemente disinnescata da gag slapstick, i dialoghi più cupi sono interrotti da giochi di parole, le scene d'azione sono goffe e anti-spettacolari. Due gangster, apparentemente minacciosi, si rivelano buffoni verbosi che rapiscono il fratellino di Charlie e discutono di donne con una logica surreale. La narrazione si concede pause, digressioni, come l'incredibile intermezzo in cui il cantante Boby Lapointe esegue la sua "Framboise", un brano dal testo talmente denso di doppi sensi e calembour da richiedere i sottotitoli persino per il pubblico francese. È un momento di pura epifania ludica, un'interruzione della finzione che dichiara apertamente la natura artificiale e giocosa dell'opera, un gesto che anticipa le decostruzioni postmoderne di decenni.
Questo approccio è l'essenza stessa della Nouvelle Vague. Tirate sul pianista è un manifesto di cinefilia applicata. Truffaut non si limita a citare, ma dialoga attivamente con i suoi maestri. L'uso dell'iris, un omaggio diretto al cinema muto di Griffith, non è un vezzo stilistico, ma uno strumento espressivo che isola i personaggi, li incornicia nella loro solitudine o sottolinea un dettaglio rivelatore. I jump-cut, la macchina da presa a mano che pedina i personaggi per le strade di una Parigi autentica e non da cartolina, la disinvoltura con cui si mescolano registri alti e bassi: tutto contribuisce a creare un senso di libertà euforica, la sensazione di un cinema che si sta reinventando in tempo reale, scrollandosi di dosso la polvere del "cinéma de qualité" francese. Il film è un atto di fede nell'intelligenza dello spettatore, invitato a partecipare a un gioco di riferimenti, a riconoscere l'omaggio a Sam Fuller in una rissa o l'ombra dei fratelli Marx in un inseguimento.
Eppure, sotto questa superficie scintillante e auto-referenziale, pulsa un cuore nero. La leggerezza di Truffaut non è mai vacua; è la maschera sorridente della tragedia. Il film è disseminato di momenti di violenza improvvisa e agghiacciante, resi ancora più brutali dal contrasto con il tono generale. La morte di Léna (Marie Dubois), la cameriera che sembra offrire a Charlie una via di fuga e una seconda possibilità, è uno dei momenti più crudeli e memorabili della storia del cinema. Colpita da un proiettile vagante, si accascia nella neve senza un lamento, in un silenzio assordante. La macchina da presa si sofferma sul suo corpo mentre i fiocchi di neve, con una bellezza indifferente e quasi pittorica, iniziano a coprirla. Non c'è melodramma, non c'è catarsi. Solo la geometria del caso, l'assurdità di un destino che colpisce senza una ragione. È qui che il gioco finisce. La parentesi comica si chiude e Charlie/Édouard si ritrova esattamente dove era partito, forse anche più in basso.
La struttura circolare del film è spietata. L'ultima inquadratura ci mostra Charlie di nuovo al suo pianoforte, che lancia uno sguardo a una nuova cameriera, specchio dell'inizio della sua storia con Léna. Il ciclo di timidezza, attrazione e potenziale tragedia è pronto a ricominciare. È la condanna di un uomo intrappolato non tanto da gangster o da un passato glorioso, ma dalla sua stessa natura. Il suo rifugio, la musica, è anche la sua prigione. La sua sensibilità d'artista è ciò che lo rende incapace di affrontare la brutalità del mondo. In questo, Tirate sul pianista trascende il pastiche e diventa una riflessione profonda e commovente sulla condizione dell'artista, sull'impossibilità di separare l'arte dalla vita e sulla vulnerabilità che ne consegue.
In un'epoca di cinema che spesso si prende mortalmente sul serio o si rifugia in un'ironia fine a se stessa, rivedere Tirate sul pianista è un'esperienza liberatoria. È un film che danza sull'orlo dell'abisso, che trova la poesia nell'assurdo e la tragedia in una gag. È la prova che si può essere al tempo stesso profondamente intellettuali e incredibilmente divertenti, formalmente audaci e emotivamente devastanti. François Truffaut non ha semplicemente girato un film noir alla francese; ha preso il cuore di tenebra del genere e lo ha trapiantato nel petto di un clown malinconico, creando un capolavoro la cui modernità, a più di sessant'anni di distanza, continua a risuonare con la stessa, irresistibile, stonatura.
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