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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Titicut Follies

1967

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Un vaudeville infernale. Un musical da obitorio. La dissonanza cognitiva inscritta nel titolo, "Titicut Follies", è la chiave ermeneutica per decifrare l'impatto tellurico del primo, insuperato capolavoro di Frederick Wiseman. "Follies" evoca le riviste sfarzose e piumate di Ziegfeld, lo sberleffo, la leggerezza coreografata. "Titicut" è il nome, di derivazione Wampanoag, dell'area in cui sorge il Bridgewater State Hospital for the Criminally Insane, Massachusetts. L'accostamento non è solo ironico; è una dichiarazione di poetica, un ossimoro che squarcia il velo della rappresentazione e ci precipita in un girone dantesco filmato con la spietata oggettività di una perizia autoptica.

Wiseman, avvocato e professore, non entra a Bridgewater con l'intento del riformatore sociale o del giornalista d'inchiesta, sebbene il suo film diventerà, suo malgrado, un'arma legale e un documento di denuncia. Entra con lo sguardo del fenomenologo, con una cinepresa che non è un occhio compassionevole, ma una lente entomologica. È questo il fulcro del suo cinéma vérité, così diverso da quello, più caldo e partecipativo, di un Jean Rouch. La macchina da presa di John Marshall, operata con una fluidità quasi spettrale, non giudica, non commenta, non spiega. Registra. E nel suo registrare, disseziona le complesse e perverse liturgie del potere istituzionale. Il risultato è un'opera che trascende il documentario per farsi saggio antropologico sulla natura della sanità, del controllo e della disumanizzazione, un'esperienza visiva talmente estrema da far impallidire le finzioni più disturbanti di un Haneke o di un Gaspar Noé.

Il film si struttura come una discesa agli inferi senza Virgilio a farci da guida. Non c'è una narrazione lineare, non ci sono protagonisti nel senso classico del termine. I "personaggi" sono archetipi intercambiabili nel grande meccanismo dell'istituzione: il paziente nudo e delirante, il dottore condiscendente che fuma una sigaretta mentre un sondino naso-gastrico viene forzato nella gola di un uomo, la guardia che scherza con una crudeltà casuale, quasi annoiata. Siamo di fronte a un'architettura del grottesco che richiama alla mente non tanto il cinema, quanto la pittura di Hieronymus Bosch o le incisioni dei "Capricci" di Goya. Le carni flaccide e bianche dei pazienti, esposte senza pudore, ricordano i corpi torturati e deformi dei "Disastri della guerra". È un realismo brutale, quasi chthonio, che mette a nudo non solo i corpi, ma l'essenza stessa della vulnerabilità umana.

Wiseman orchestra il suo materiale con un'intelligenza registica formidabile, creando una dialettica costante tra parola e immagine, tra suono e silenzio. Un paziente viene interrogato da uno psichiatra in un dialogo che sembra uscito da un dramma di Beckett o di Ionesco: le domande sono assurde, le risposte circolari, la logica è bandita. È la rappresentazione perfetta del potere burocratico e psichiatrico che si auto-legittima attraverso un linguaggio che ha perso ogni contatto con la realtà. Subito dopo, senza stacco, siamo catapultati nella violenza fisica dell'alimentazione forzata. Il linguaggio fallisce, il corpo diventa l'ultimo, disperato campo di battaglia. Questo montaggio non è casuale; è una tesi. Wiseman ci mostra come la violenza verbale e psicologica sia il preludio, e la giustificazione, di quella fisica.

E poi, ci sono le "Follies", lo spettacolo che dà il titolo al film. Un momento che, in un'opera convenzionale, rappresenterebbe una catarsi, un barlume di umanità. Qui, è l'apice del grottesco. I pazienti e le guardie mettono in scena un varietà stonato e sgangherato, una parodia della normalità che risulta più terrificante della follia conclamata. È una performance coatta, un'esibizione di sanità per compiacere i carcerieri, che svela la natura intrinsecamente teatrale dell'istituzione stessa. Tutti recitano una parte: il dottore recita la parte del guaritore, la guardia quella del tutore, il paziente quella del folle. Bridgewater non è un ospedale; è un palcoscenico dove va in scena la tragedia del potere assoluto. L'analogia più calzante non è con il cinema, ma con il Panopticon di Jeremy Bentham, la prigione ideale descritta da Foucault: una struttura in cui i detenuti, sapendo di essere costantemente osservabili, interiorizzano la sorveglianza e diventano i controllori di sé stessi. La cinepresa di Wiseman è la torre centrale di quel Panopticon, e noi spettatori siamo le guardie invisibili, complici di questo sguardo.

La controversia legale che circondò il film per quasi un quarto di secolo, vietandone la pubblica proiezione in Massachusetts fino al 1991, è parte integrante della sua eredità. Lo Stato sostenne che violava la privacy e la dignità dei pazienti. Una motivazione apparentemente nobile, che nascondeva però il terrore che quello sguardo spietato e oggettivo potesse rivelare la bancarotta morale del sistema. La dignità, ci suggerisce Wiseman, non viene violata dalla cinepresa che la mostra, ma dall'istituzione che la nega sistematicamente. Il film non è voyeuristico; è un atto di testimonianza radicale. È l'esatto opposto di un'opera come Qualcuno volò sul nido del cuculo, che romanticizza la ribellione contro l'istituzione attraverso un eroe carismatico. In "Titicut Follies" non ci sono eroi. Non c'è ribellione. C'è solo il lento, metodico, quasi burocratico smantellamento dell'essere umano.

La sequenza finale è forse una delle più agghiaccianti della storia del cinema. Dopo aver assistito a ogni forma di umiliazione del corpo vivente, assistiamo alla sua preparazione post-mortem. Il cadavere di un paziente viene lavato, rasato, sventrato e ricomposto con una freddezza che è la logica conseguenza di tutto ciò che abbiamo visto prima. La camera indugia sui dettagli del processo di imbalsamazione con la stessa impassibilità con cui ha ripreso le sessioni di terapia o l'alimentazione forzata. È il punto omega del percorso di reificazione: l'uomo, spogliato della sua mente, della sua volontà e della sua dignità, viene infine ridotto a un mero oggetto da preparare e inscatolare. L'istituzione ha completato il suo lavoro. Il montaggio incrocia queste immagini con quelle dello spettacolo, creando un contrappunto macabro tra la farsa della vita e la liturgia della morte. È un finale che non offre speranza né redenzione, ma solo la constatazione di un ciclo escatologico.

"Titicut Follies" non è un film da "vedere". È un'opera da esperire, da subire. È un testo fondamentale non solo per comprendere la storia del documentario, ma per interrogarsi sulla natura stessa dello sguardo cinematografico e sulla sua responsabilità etica. Wiseman ha creato un oggetto filmico puro e terribile, un monolite nero che si erge a imperituro memento della fragilità della nostra umanità di fronte al potere impersonale delle strutture che noi stessi abbiamo creato. Un capolavoro che non invecchia, perché la sua analisi del potere e della sua capacità di ridurre l'individuo a cosa non è legata a un'epoca, ma è una costante, terribile, della condizione umana. Un'opera che, come una tragedia greca riscoperta, ci costringe a guardare nell'abisso, lasciandoci soli con l'eco delle nostre stesse, inconfessabili, paure.

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