Vogliamo Vivere!
1942
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Regista
Lubitsch, maestro della levità, raccoglie la sfida di un argomento spinoso come il nazismo (in tempo di guerra) e realizza un’opera ironica e profonda. La sua rinomata "Lubitsch Touch", solitamente associata a sofisticate commedie romantiche e sociali, qui si eleva a strumento di acuta analisi politica, dimostrando un coraggio intellettuale quasi sfacciato per l'epoca (il film è del 1942). È un azzardo sublime, quello di affrontare la minaccia totalitaria non con il dramma o la denuncia frontale – che pure avrebbero avuto la loro ragione d'essere – ma con l'arma affilatissima della satira, disvelandone l'intrinseca assurdità e la fragilità della sua pomposa facciata.
Nella Polonia occupata una compagnia di attori mette in scena l’Amleto di Shakespeare dopo aver ricevuto il veto della censura tedesca su un dramma intitolato Gestapo. Il contesto meta-teatrale è fin da subito preponderante e si configura come un brillante dispositivo narrativo. L'impossibilità di rappresentare apertamente la realtà (il dramma "Gestapo") costringe gli attori a rifugiarsi nella finzione classicista dell'Amleto, ma è proprio da questa finzione che scaturisce la loro capacità di resistere. Il palco diventa un microcosmo dove la verità si nasconde dietro il velo della recitazione, e la performance, lungi dall'essere mera evasione, si rivela atto di sopravvivenza e di sfida. L'eco di Shakespeare, il maestro dell'inganno e della recita, amplifica la risonanza tematica: Amleto è una tragedia di apparenze e realtà nascoste, proprio come la situazione che gli attori si trovano a vivere.
Il tutto avviene sotto gli occhi dei nazisti invasori, una presenza costante e minacciosa che, paradossalmente, diventa essa stessa oggetto di derisione. È qui che la commedia di Lubitsch si fa più acuminata, sottraendo al potere oppressivo la sua aura di invincibilità attraverso il ridicolo.
Sullo sfondo una complicata vicenda di spionaggio in cui la compagnia prende parte per evitare guai alla resistenza polacca. La trama si dipana in un vortice di scambi di persona, travestimenti e finzioni che travalicano il palcoscenico per invadere la realtà, trasformando attori in spie e spie in attori, in una vertiginosa girandola di identità ambigue. La logica della guerra, fatta di sotterfugi e inganni, si fonde con la logica del teatro, in cui la rappresentazione è l'essenza stessa.
Celebre la scena del monologo to be or not to be (da cui il titolo del film) che vede il dipanarsi di un incredibile girandola di equivoci presso i tedeschi. Questo momento è la quintessenza della genialità lubitschiana. Il monologo più celebre della letteratura inglese, profonda indagine sull'esistenza e sulla morte, viene decontestualizzato e manipolato con maestria comica, diventando il perno di un'ingegnosa strategia di inganno. La sua ripetizione ossessiva, la sua interruzione comica da parte di una signora innamorata, la sua strumentalizzazione per confondere e sviare i nazisti, trasformano un testo sublime in una chiave di volta per la sopravvivenza. L'umorismo non è mai gratuito, ma serve a smascherare l'ottusità e la vanità del regime, incapace di cogliere la profondità del testo o la sottigliezza della beffa. Il titolo originale del film, "To Be or Not to Be", non è solo un riferimento letterale alla scena, ma un interrogativo esistenziale che si estende alla condizione stessa dei personaggi e della Polonia occupata: esistere o meno, resistere o arrendersi, agire o subire.
Un’opera fresca, leggera, intelligente, pungente, quasi parodistica, ma mai volgare nei toni. A differenza di altre satira contemporanee, come il pur notevole Il Grande Dittatore di Chaplin, che pur condividendo l'intento di demistificare il nazismo assume toni più apertamente farseschi e moraleggianti, Lubitsch opera con una precisione chirurgica. Il suo sarcasmo è sottile, basato sull'implicito e sul non detto, sulla costruzione di situazioni che espongono l'assurdità del potere senza mai cadere nella caricatura grossolana o nel didascalismo. La comicità emerge dalla collisione tra la dignità autoimposta dei nazisti e la loro intrinseca ridicolaggine, tra la gravità della situazione e la leggerezza con cui essa viene gestita dagli artisti.
Un film che seppe far uso di un sobrio sarcasmo per mettere in luce le orrende contraddizioni del nazismo e la spietata macchina repressiva che (ancora) celava. È il trionfo dell'intelletto sul dogma, della creatività sulla brutalità, della libertà sul controllo. Le contraddizioni emergono lampanti: la loro pretesa di superiorità intellettuale svelata da una creduloneria quasi infantile; la loro sete di controllo assoluto che si scontra con l'imprevedibilità del genio attoriale; la loro spietatezza celata da una buffa rigidità burocratica. Lubitsch non li dipinge come mostri irraggiungibili, ma come uomini comuni (e perciò ancora più inquietanti nella loro adesione al male) la cui pretesa di grandezza è costantemente minata dalla loro stessa meschinità e dalla loro incapacità di comprendere la sottigliezza dell'arte e dell'ingegno umano. Il film ha la prescienza di cogliere l'essenza del regime prima che la portata delle sue atrocità fosse pienamente manifesta al mondo.
Un film dunque che ha in nuce una denuncia sociale stratificandola, attraverso l’arma dell’ironia, in vari livelli: il livello teatrale, quello del linguaggio, quello dell’espressività, quello della società tout court. Sul livello teatrale, la recitazione non è solo un mestiere ma un'arte di sopravvivenza, un modo per navigare la realtà costruita e pericolosa dell'occupazione. La fusione tra la vita reale e la finzione scenica è totale, e l'abilità di mentire convincentemente diventa una virtù cardinale. Per quanto riguarda il linguaggio, Lubitsch ne esplora le potenzialità sovversive: le parole, che i nazisti usano per imporre l'ordine e la propaganda, vengono manipolate dagli attori per confondere, ingannare e, infine, resistere. Il potere del non detto, dell'allusione, del doppio senso, diventa un'arma più potente di qualsiasi minaccia esplicita. Sul piano dell’espressività, il film è un manuale di recitazione comica: Jack Benny, con la sua inimitabile capacità di esprimere l'irritazione e la vanità represse, e Carole Lombard, nella sua ultima, indimenticabile interpretazione, che irradia un fascino e una verve irresistibili. Ogni sguardo, ogni intonazione, ogni gesto è calibrato per massimizzare l'effetto comico e drammatico. Infine, a livello di società tout court, Vogliamo Vivere! è un inno alla resilienza dello spirito umano, alla capacità di trovare l'umorismo e la dignità anche nelle circostanze più disperate. È un promemoria che l'arte, in tutte le sue forme, può essere una forma di resistenza potentissima, un baluardo contro l'oppressione, capace di smascherare la tirannia e di riaffermare la fondamentale, insopprimibile umanità.
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