Totò, Peppino e la Malafemmina
1956
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Regista
Camillo Mastrocinque, spesso sottovalutato nell'olimpo dei giganti della commedia all'italiana quali Risi, Monicelli o Scola, fu in realtà un pioniere, un architetto silenzioso di quel genere che avrebbe definito un'intera epoca cinematografica. La sua regia, qui al servizio della splendida coppia formata da Totò e Peppino De Filippo, non si limita a imbastire una trama "demenziale, ironica e sarcastica", ma orchestra una sinfonia di equivoci e disadattamenti culturali con una precisione quasi matematica. Totò, il Principe della risata, e Peppino, la sua spalla ideale, non sono qui semplici attori, ma archetipi viventi di un'Italia in transito, capaci di tradurre l'assurdità del quotidiano in un umorismo universale, ma profondamente radicato nel genius loci partenopeo. La loro intesa, fatta di sguardi, pause e accelerazioni improvvise, trascende la sceneggiatura, elevando ogni gag a puro momento di grazia comica, un dialogo muto eppure assordante tra due mondi e due mentalità.
La storia, nella sua semplicità quasi fiabesca, funge da mero pretesto per scatenare il carosello di incomprensioni: i due zii, Antonio La Quaglia e Peppino Caponi, partono dal loro piccolo mondo meridionale, un universo di consuetudini e valori tradizionali, con la missione salvifica di "redimere" il nipote Gianni, che ha osato "perdere la testa" per le lusinghe di una "malafemmina" milanese. Ma questo viaggio verso il "profondo Nord", metafora di un'Italia in rapida evoluzione post-bellica e pre-boom economico, si rivela un'epopea del disorientamento.
Milano, con i suoi grattacieli ancora pochi ma significativi, la sua frenesia borghese e la sua logica cartesiana, si erge come un monolite incomprensibile agli occhi dei due provinciali. Non è solo "aliena e straniera"; è un universo parallelo, governato da codici sociali e linguistici che sfuggono alla loro comprensione, quasi una città fantasma di segni e significanti decodificati erroneamente. L'immagine di loro, smarriti nel traffico o davanti a un moderno ristorante, incapaci di ordinare un semplice pasto, è la quintessenza del clash culturale che caratterizzò gli anni del massiccio esodo interno. Un contrasto che ricorda per certi versi l'approccio antropologico di un Vittorio De Sica o di un Pietro Germi nel mostrare le rigidità sociali, ma qui filtrato attraverso la lente distorta e liberatoria della risata.
Ed è proprio in questo scontro di mondi che si inserisce, come un diamante incastonato nel tessuto narrativo, la celeberrima scena in cui i due redigono una lettera per tentare di corrompere la donna che ha fatto perdere la testa al nipote. Non si tratta di una semplice gag, ma di una vera e propria anatomia della comunicazione fallita, un saggio sulla malleabilità e sulla violenza della lingua. Le parole, da strumenti di intellegibilità, diventano armi di distruzione semantica, frantumando ogni velleità di serietà e logica. La scelta di alternare il voi e il lei, la declinazione approssimativa di formule burocratiche e la logica contorta che porta a trasformare un tentativo di dissuasione in una surreale dichiarazione d'amore o una velata minaccia ("Desideriamo altamente sapere: la Signoria Vostra vuole o non vuole lasciare il nostro nipote?!"), sono la cifra stilistica dell'intera sequenza. La scena è così potente da essere entrata nell'immaginario collettivo, citata e riproposta in innumerevoli contesti, elevando Totò e Peppino non solo a maestri di comicità, ma a veri e propri linguisti inconsapevoli, capaci di dissezionare le pieghe più recondite dell'italiano popolare e formale. È un momento di genio puro, che dimostra come l'umorismo più sottile possa emergere dalla perfetta padronanza dell'imperfezione linguistica.
Va da sé che l’italiano dell’epistola è assolutamente barcollante, eufemismo per dire che è un edificio sintattico e grammaticale prossimo al crollo. Ma non è un italiano semplicemente scorretto; è un italiano creativo, un laboratorio linguistico dove il dialetto si scontra con la pretesa di un registro aulico, il tutto condito da errori concettuali e da una punteggiatura anarchica. È la lingua di chi ha imparato le regole a orecchio, applicandole con una logica tutta sua, che disarma per la sua intrinseca, assurda coerenza. L'uso di espressioni come "vogliate gradire i nostri più sentiti ossequi" mescolate a "siamo venuti con questa nostra... per dirvi", mostra la collisione tra la dignità affettata e l'ingenua spontaneità. Questa anarchia linguistica non è un difetto, ma il motore stesso della comicità, rivelando la distanza incolmabile tra le intenzioni e la loro realizzazione, tra la pretesa di autorità e la genuina ignoranza delle forme. La scena, con Totò che detta e Peppino che trascrive con la calligrafia incerta di un bambino, è un monumento all'incapacità comunicativa che, paradossalmente, comunica più di mille discorsi.
Da notare come la verve comica infusa nella sceneggiatura, come spesso accade nei film di Totò, presenti dei ritmi incalzanti e assolutamente perfetti nel loro sincronizzarsi alla narrazione. Mastrocinque, con un montaggio serrato e inquadrature che esaltano la mimica e la gestualità dei protagonisti, riesce a mantenere alta la tensione comica. Ogni battuta, ogni sguardo, ogni tic nervoso di Totò trova la sua rispondenza nella reazione esasperata ma sempre contenuta di Peppino. È un balletto comico fatto di accelerazioni improvvise e di pause drammatiche, dove il silenzio è tanto eloquente quanto la parola. Questo dinamismo non è casuale; riflette la velocità con cui l'Italia stava cambiando, un'esplosione di energie e contraddizioni che i due protagonisti, con la loro apparente lentezza e provincialità, riescono a catturare con geniale immediatezza. La loro performance non si basa solo sul copione, ma sulla capacità di improvvisazione (o sull'illusione di essa), sull'interazione quasi teatrale che li rende una delle coppie più indimenticabili del cinema italiano, un vero e proprio motore inesauribile di risate e riflessioni.
Ma l’opera non è solo un inno alla risata; essa presenta anche un tentativo neppur troppo velato di denunciare le diseguaglianze sociali tra Nord e Sud, ed il razzismo latente che gli italiani del Sud devono quotidianamente subire al Nord. In un'epoca di massiccia migrazione interna, con milioni di meridionali che lasciavano le proprie terre per cercare fortuna nelle fabbriche del triangolo industriale, il film di Mastrocinque si pone come uno dei primi, e più acuti, specchi di questa realtà. Totò e Peppino, con la loro ingenuità e il loro smarrimento, diventano simboli viventi di un'intera generazione di migranti, guardati con sospetto, derisi per il loro accento o per le loro maniere, trattati con una condiscendenza che malcelava un profondo pregiudizio. Il film non fa prediche, non calca la mano con il dramma, ma attraverso la lente deformante della commedia, mette in scena in modo implacabile il gap culturale, economico e sociale. Il loro tentativo di comprendere le "moderne" abitudini nordiche – dal modo di mangiare al ristorante, all'interagire con la burocrazia o la moda – è una satira pungente sulle rigidità e le chiusure di una società che faticava ad accettare la sua stessa eterogeneità interna. In questo senso, "Totò, Peppino e la Malafemmina" anticipa temi che sarebbero stati esplorati più apertamente dalla commedia all'italiana degli anni '60, confermando come il riso possa essere la forma più efficace di denuncia sociale.
Un film che riconcilia con il sorriso, ma che in tralice, tra mille risate, fa anche pensare. È la quintessenza della commedia italiana nella sua accezione più nobile: un'arte capace di divertire profondamente mentre scava nelle contraddizioni umane e sociali. La pellicola non è solo un classico intramontabile per la comicità di Totò e Peppino, ma un documento prezioso di un'Italia che si stava trasformando a velocità vertiginosa, divisa tra tradizione e modernità, tra identità regionali e una nascente coscienza nazionale. La "malafemmina" del titolo, interpretata da una sensuale Dorian Gray, non è solo l'oggetto del desiderio o della preoccupazione, ma anche la personificazione di un cambiamento di costumi e moralità che i due zii, ancorati a valori più antichi, non possono comprendere né accettare. Il film, a quasi settant'anni dalla sua uscita, conserva intatta la sua potenza comica e la sua rilevanza sociale, dimostrando che la risata più autentica è quella che nasce dall'osservazione acuta della realtà, anche delle sue pieghe più scomode. Un'opera che, senza mai scadere nel didascalico, ci offre uno spaccato irriverente e profondamente umano di un'epoca e di un Paese, confermando il suo status di pietra miliare nel pantheon del cinema italiano.
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