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Trappola di cristallo

1988

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Nella grande cattedrale del cinema d'azione, un tempio eretto su fondamenta di testosterone e polvere da sparo negli anni '80, "Trappola di cristallo" non è semplicemente una navata o un altare. È la chiave di volta. Un'opera di ingegneria narrativa così perfetta, così geometricamente ineccepibile nella sua tensione crescente, da trascendere il proprio genere per assurgere a paradigma. Sotto la superficie di un thriller adrenalinico si cela un meccanismo a orologeria di precisione svizzera, un western postmoderno dislocato in un non-luogo verticale, e la più radicale decostruzione dell'eroe che il cinema mainstream americano avesse osato concepire fino a quel momento.

Per comprendere l'impatto sismico del film di John McTiernan, occorre contestualizzarlo nel suo zeitgeist. Il 1988 è l'apice dell'era reaganiana, un'epoca di muscoli oliati e mascelle serrate. Gli schermi sono dominati da monoliti umani come Schwarzenegger e Stallone, semidei invulnerabili che falciano nemici con la stessa disinvoltura con cui noi comuni mortali scegliamo un cereale per la colazione. Sono figure mitologiche, incarnazioni di un'America trionfante e indistruttibile. E poi, in questo pantheon di titani, arriva John McClane. Non è un soldato d'élite, non è un commando, è un poliziotto di New York fuori servizio, con un matrimonio in crisi e la paura di volare. La sua introduzione è emblematica: a piedi nudi, vulnerabile, sta cercando di riconciliarsi con la moglie in un ambiente che non gli appartiene, il party aziendale della multinazionale Nakatomi. Bruce Willis, fino ad allora noto principalmente per la commedia romantica televisiva "Moonlighting", porta con sé un bagaglio di ironia, fallibilità e stanchezza esistenziale che frantuma l'archetipo dell'eroe action.

McClane non vince perché è il più forte; vince perché è il più ostinato, il più disperato. Sanguina, si taglia i piedi sui vetri in una sequenza di una fisicità straziante, parla da solo per non impazzire, usa il sarcasmo come scudo contro il terrore. È un eroe reattivo, non proattivo. Non sceglie la lotta; la lotta si abbatte su di lui, come una calamità biblica in una notte di Natale. In questo, McClane è più vicino a un protagonista di un romanzo di Dashiell Hammett o Raymond Chandler che a John Rambo. È un uomo comune gettato in una situazione straordinaria, un Sisifo in canottiera sporca che spinge il suo macigno di esplosivo C-4 su per i 30 e passa piani dell'inferno aziendale. La sua celebre esclamazione, "Yippee-ki-yay, motherfucker", non è un grido di battaglia sprezzante alla maniera di Conan, ma il rantolo ironico e disperato di un cowboy da B-movie che sa di essere finito nel film sbagliato.

Se McClane è la tesi decostruita, Hans Gruber è l'antitesi perfetta. Interpretato da un Alan Rickman al suo esordio cinematografico, con una performance che è pura seta e veleno, Gruber non è il solito terrorista con un'ideologia posticcia. In una delle più brillanti torsioni narrative del decennio, la sua presunta rivoluzione politica si rivela essere una cinica messinscena per la più classica delle rapine. Gruber è un cattivo da camera, un esteta del crimine. È colto, cita Plutarco, veste con un'eleganza impeccabile e orchestra il suo piano con la precisione di un direttore d'orchestra. È il Professor Moriarty per lo Sherlock Holmes proletario di McClane. Il loro duello non è solo fisico, ma intellettuale e verbale, combattuto attraverso le frequenze di una radio walkie-talkie. La loro prima conversazione, in cui Gruber si finge un ostaggio, è una partita a scacchi psicologica degna di un dramma di Harold Pinter, un gioco di maschere e identità che eleva la posta emotiva a livelli inauditi per il genere.

Il terzo, fondamentale protagonista del film è l'architettura stessa: il Nakatomi Plaza. Non è un semplice sfondo, ma un personaggio attivo, un labirinto verticale che detta le regole del gioco. McTiernan, già maestro della geografia spaziale in "Predator", qui si supera, trasformando l'edificio in un organismo vivente. I condotti di ventilazione diventano arterie claustrofobiche, i vani degli ascensori precipizi mortali, le vetrate immense e fragili confini tra la vita e la morte. Il grattacielo, simbolo scintillante del capitalismo rampante e della globalizzazione degli anni '80, diventa una prigione di vetro e acciaio, una moderna Torre di Babele assediata non da un esercito, ma da un singolo uomo scalzo. La regia di McTiernan è di una chiarezza cristallina: sappiamo sempre dove si trova McClane, dove sono i terroristi, e quali sono le vie di fuga o di scontro possibili. Questa consapevolezza spaziale è la fonte primaria della suspense. È una lezione di cinema puro, dove la forma non solo serve la funzione, ma è la funzione.

La sceneggiatura, adattata dal romanzo "Nothing Lasts Forever" di Roderick Thorp (sequel di "The Detective", già portato sullo schermo con Frank Sinatra), è un miracolo di economia e costruzione. Ogni elemento introdotto nella prima parte – dalle dita dei piedi di McClane alla menzione del Rolex della moglie Holly – viene ripagato con una precisione quasi matematica nel finale. La narrazione procede con un'inarrestabilità da tragedia greca, rispettando quasi alla lettera le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione. L'intera vicenda si svolge in una manciata di ore, in un unico edificio. Questo senso di compressione temporale e spaziale crea una morsa di tensione che non lascia respiro. E in questo assedio, il film trova il suo cuore emotivo non solo nella lotta per la famiglia, ma nel legame che McClane stringe via radio con il sergente Al Powell (Reginald VelJohnson), la sua unica ancora di salvezza e di umanità nel mondo esterno. La loro è un'amicizia nata nell'etere, una confessione a distanza tra due uomini segnati dal proprio lavoro, che culmina in una catarsi finale tanto violenta quanto toccante.

"Trappola di cristallo" è anche una riflessione metanarrativa sul potere dei media (incarnati dal viscido giornalista Richard Thornburg) e sulla percezione della realtà. Gruber e i suoi uomini non sono solo ladri, sono performer. Usano il linguaggio e l'iconografia del terrorismo politico per manipolare le forze dell'ordine e l'opinione pubblica, un commento profetico sulla natura spettacolarizzata della violenza nell'era dell'informazione globale. Il film stesso gioca con i cliché del genere che sta ridefinendo, citando i film di cowboy e trasformando una festa di Natale nell'apocalisse. E sì, è innegabilmente un film di Natale. Non solo per l'ambientazione, ma perché, al suo nucleo, è una storia di redenzione familiare e di un uomo che attraversa letteralmente il fuoco e le fiamme per tornare a casa. L'uso della "Ode alla Gioia" di Beethoven non è casuale: è il contrappunto ironico e sublime a un'sinfonia di esplosioni, un inno all'umanità che trionfa sul caos calcolato.

Più di tre decenni dopo, l'influenza di "Trappola di cristallo" è incalcolabile. Ha generato un'infinità di cloni ("Die Hard su un autobus", "Die Hard su una nave", "Die Hard sulla Luna"), ma nessuno è riuscito a replicarne la perfetta alchimia. È un monolite d'acciaio e celluloide, un'opera che ha dimostrato come un film d'azione possa essere intelligente, stratificato e profondamente umano. È la prova che, a volte, per raggiungere le vette dell'arte cinematografica non servono ali, ma bastano piedi nudi, una canottiera sporca e una scorta inesauribile di testarda, sarcastica, meravigliosa umanità. Yippee-ki-yay.

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