Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Tropical Malady

2004

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Media: 4.14 / 5

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Un colpo di mannaia netta recide la pellicola a metà, una cesura tanto brutale quanto filosoficamente necessaria che separa Tropical Malady in due mondi speculari e antagonisti. Non si tratta di un semplice cambio di registro, né di un vezzo narrativo da festivalier. Quella di Apichatpong Weerasethakul è un'operazione di scissione dell'atomo cinematografico, un atto che costringe lo spettatore a rinegoziare il proprio patto con le immagini, a dubitare della grammatica stessa del visibile. È un film-diptico, un'opera bifronte che prima seduce con la prosa del reale e poi rapisce con la poesia del mito, lasciandoci sperduti in una giungla che è al contempo fisica e psichica, esteriore e interiore.

La prima metà è un idillio queer di una delicatezza disarmante, quasi documentaristica. Seguiamo Keng, un soldato di pattuglia, e Tong, un ragazzo di campagna, mentre il loro legame sboccia nella provincia rurale thailandese. Weerasethakul filma i loro incontri con una grazia che ha del miracoloso, catturando la coreografia impacciata e tenerissima del desiderio nascente. Le loro mani che si sfiorano, gli sguardi rubati, una gita in moto, una visita a una grotta sacra, una serata al cinema: sono frammenti di un realismo pudico e sensuale, immersi in una luce calda e avvolgente. C'è un'autenticità quasi neorealista in questa prima parte, un'attenzione al dettaglio quotidiano, al ronzio degli insetti, al lavoro nella fabbrica di ghiaccio, che sembra voler radicare la narrazione in un terreno solido, tangibile. L'omosessualità dei protagonisti non è mai un "tema" o un "problema" da sviscerare secondo i canoni del dramma occidentale; è un dato di fatto, un sentimento che fluisce con la stessa naturalezza del fiume che scorre lì accanto, accettato senza clamore dalla famiglia di Tong e dall'ambiente circostante. È un'utopia silenziosa, un Eden precario la cui fragilità si avverte sottopelle, come un'imminente stagione dei monsoni.

Poi, il buio. Uno stacco netto. Appare un intertitolo che annuncia una nuova storia, una favola popolare su uno sciamano capace di trasformarsi in tigre che terrorizza i villaggi. E il film rinasce, o meglio, si trasmuta. Keng, o una sua versione archetipica, è di nuovo in scena, ma questa volta è solo, armato di fucile, immerso nelle profondità di una giungla opprimente. La sua preda è la tigre, che secondo la leggenda è l'incarnazione dello spirito di un uomo. Improvvisamente, la narrazione lineare evapora. Il dialogo scompare, sostituito da una sinfonia tellurica di suoni naturali amplificati: il frinire assordante delle cicale, lo stormire delle foglie, il verso di animali invisibili. La giungla di Weerasethakul non è uno sfondo, ma un'entità viva, pulsante e senziente. È un labirinto verde che inghiotte la luce e la logica, un luogo dove le leggi della fisica e della razionalità sono sospese.

Qui, il parallelismo con il cinema di Werner Herzog, in particolare con Aguirre, furore di Dio, sorge spontaneo, ma con una differenza epistemologica cruciale. Se la giungla herzoghiana è uno specchio della follia coloniale e della hybris dell'uomo occidentale, quella di Apichatpong è un grembo spirituale, un luogo di ritorno all'origine dove le barriere tra umano, animale e divino si dissolvono. La caccia di Keng non è un atto di conquista, ma un rituale di fusione. È un inseguimento che assomiglia a un corteggiamento, una danza mortale tra predatore e preda le cui identità diventano sempre più fluide e intercambiabili. La tigre che lo osserva dalle tenebre, con i suoi occhi fosforescenti, potrebbe essere lo spirito di Tong, l'oggetto del suo desiderio trasfigurato in forma ferina. L'attrazione si fa predazione, l'amore si fa fame.

Questa seconda metà è un'immersione totale nel realismo magico, non quello letterario e solare di un García Márquez, ma uno più oscuro, animista, radicato nel folklore siamese. È come se fossimo precipitati in un quadro di Henri Rousseau, Il Sogno, dove la natura lussureggiante e stilizzata nasconde una minaccia primordiale e una bellezza ipnotica. Il soldato, simbolo dell'ordine e della civiltà, viene progressivamente spogliato delle sue certezze, divorato dalla foresta. La sua ricerca diventa un viaggio allucinato nel cuore di tenebra della propria anima, un'eco tropicale del viaggio di Willard in Apocalypse Now, ma senza la ricerca di un Kurtz esterno. Il nemico, l'altro, è dentro di sé, è una parte del proprio stesso essere che si è scissa e animalizzata.

Cosa lega, dunque, queste due anime così apparentemente inconciliabili di Tropical Malady? La risposta, forse, risiede proprio nel titolo. La "malattia tropicale" è l'amore stesso, una febbre che altera la percezione, un contagio che trasforma. La prima parte del film ci mostra la sintomatologia sociale e romantica di questa malattia; la seconda, la sua essenza mitica e selvaggia. Sono due linguaggi diversi per descrivere la stessa forza ineluttabile: il desiderio. Prima è espresso attraverso gesti timidi e parole sussurrate nella civiltà; poi attraverso l'istinto puro, il silenzio e la violenza latente della natura. Weerasethakul compie un'operazione simile a quella di David Lynch in Mulholland Drive, dove un'apparente realtà viene squarciata per rivelare l'incubo onirico che la sottende. Ma se Lynch esplora il subconscio di Hollywood, Apichatpong esplora il subconscio di un'intera cultura, un mondo in cui il confine tra il visibile e l'invisibile, tra un essere umano e lo spirito-tigre che lo abita, è costantemente poroso.

La metamorfosi è il cuore pulsante del film, un concetto che risuona delle Metamorfosi di Ovidio. Tong si trasforma in tigre, Keng si trasforma in cacciatore, ma la caccia stessa è una trasformazione. In una delle scene più memorabili e surreali, una scimmia parlante espone la filosofia del film al soldato esausto, spiegandogli che la tigre lo vede come preda e anima gemella al tempo stesso, e che per liberare la bestia dalla sua forma ferina, dovrà ucciderla e al contempo offrirsi a lei. È un paradosso Zen, un koan che incapsula la dualità di eros e thanatos che percorre l'intera opera.

Tropical Malady non è un film da "capire" nel senso tradizionale. È un'esperienza sensoriale e spirituale, un rito di passaggio cinematografico che chiede allo spettatore di abbandonare le proprie sovrastrutture narrative e di lasciarsi inghiottire. Girato in un 16mm granuloso che conferisce alle immagini una qualità tattile, quasi organica, il film è un capolavoro di sound design e di regia atmosferica. Weerasethakul ci insegna che il cinema può essere un portale, un veicolo per accedere a stati di coscienza alterati, a un mondo dove le leggende camminano ancora sulla terra e dove l'anima di un amante può avere gli occhi incandescenti di una tigre nella notte. È un'opera che, una volta terminata la visione, continua a vivere dentro di noi, come il ricordo di una febbre strana e bellissima, come il mormorio indecifrabile di una giungla che ci ha parlato in una lingua dimenticata.

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