Un giorno a New York
1949
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Registi
Un fulmine Technicolor squarcia il velo grigio dell'alba sul Brooklyn Navy Yard. Tre marinai, tre sagome bianche contro l'acciaio industriale, esplodono giù per la passerella. Non camminano, non corrono: erompono. È l'incipit di Un giorno a New York (On the Town, 1949), ma è anche un manifesto, una dichiarazione di guerra cinetica contro la staticità del musical hollywoodiano dell'epoca. Stanley Donen e Gene Kelly non si limitano a dirigere un film; scatenano una forza della natura, un'esplosione di gioia così pura e incontenibile da ridefinire le coordinate stesse del genere. Per comprendere appieno l'impatto di questa deflagrazione, bisogna contestualizzarla: siamo nel 1949, l'eco dei cannoni della Seconda Guerra Mondiale si è appena spenta, lasciando un'America pervasa da un'euforia quasi febbrile, un desiderio collettivo di dimenticare l'orrore e abbracciare un futuro radioso. Questo film è il distillato perfetto di quell'attimo fuggente, un elisir di ottimismo post-bellico.
Gabey (Kelly), Chip (Frank Sinatra) e Ozzie (Jules Munshin) hanno 24 ore. Un solo giorno per "vedere i luoghi" di una New York mitologica. Ma il loro vero viaggio non è geografico, è esperienziale, una caccia famelica alla vita. In questo, il film si rivela, forse inconsapevolmente, come la più gioiosa e accessibile trasposizione cinematografica dell'Ulisse di James Joyce. Come Leopold Bloom nel suo peregrinare dublinese, i nostri tre eroi attraversano la metropoli in un arco temporale circoscritto, trasformando ogni incontro in un'epifania, ogni angolo di strada in un palcoscenico. Laddove Joyce usava il flusso di coscienza per mappare l'interiorità dei suoi personaggi, Kelly e Donen usano il flusso di movimento. La danza non è un intermezzo, un'evasione dalla narrazione; è la narrazione stessa. È il linguaggio primario, il soliloquio muscolare, l'equivalente cinetico del monologo interiore. La ricerca ossessiva di Gabey per la "Miss Subways" del mese, Ivy Smith (Vera-Ellen), è una moderna quête del Graal, un inseguimento amoroso che si fa pretesto per un'esplorazione epistemologica della città stessa.
La vera, radicale rivoluzione di Un giorno a New York risiede proprio qui: nell'aver strappato il musical dalle quinte edulcorate e artificiose degli studi MGM per scaraventarlo nel caos vibrante della strada. Per la prima volta in un musical di questa portata, la città non è un fondale dipinto, ma un personaggio pulsante, un partner di scena. Le riprese in esterni, per cui Kelly e Donen dovettero lottare strenuamente contro le resistenze del produttore Arthur Freed e del capo dello studio Louis B. Mayer (terrorizzati dai costi e dagli imprevisti), rappresentano un cortocircuito estetico di portata storica. In un'epoca in cui il Neorealismo italiano utilizzava le strade di Roma per documentare la desolazione e la cruda realtà del dopoguerra, Hollywood adotta una tattica simile per un fine diametralmente opposto: ancorare la fantasia più sfrenata alla realtà più tangibile. Il risultato è una sorta di "Neorealismo ottimista", un ibrido miracoloso in cui la veridicità dei luoghi – il Rockefeller Center, Central Park, il ponte di Brooklyn – non smorza la magia, ma la amplifica, rendendola credibile, quasi a portata di mano. È come se il film dicesse allo spettatore: "Vedete? Questa gioia non è confinata in un teatro di posa. Potrebbe accadere anche a voi, proprio qui, all'angolo della strada". Gli aneddoti sulla produzione, con le troupe che nascondevano le ingombranti cineprese Technicolor in furgoni per non bloccare il traffico e le folle di adolescenti che assediavano Sinatra a ogni ciak, non sono semplici curiosità, ma la testimonianza di questo scontro/incontro tra finzione e realtà.
La colonna sonora, che epura gran parte della partitura originale di Leonard Bernstein per Broadway a favore di brani più orecchiabili di Roger Edens e Comden & Green, è un altro elemento di questa democratizzazione della gioia. "New York, New York", la traccia d'apertura, è più di una canzone: è l'equivalente sonoro di una poesia di Walt Whitman. È un canto d'amore barbarico e sfrenato per la metropoli, un inno alla sua energia democratica, al suo potenziale infinito. È il "Song of Myself" di tre uomini in uniforme che vedono la città non come un labirinto di alienazione, ma come un immenso parco giochi. Ogni personaggio femminile è una variazione sul tema dell'emancipazione e della proattività, un'anomalia per l'epoca. La tassista Hildy (una strepitosa Betty Garrett) non è una damigella in pericolo, ma una cacciatrice che ribalta i ruoli di genere con una disinvoltura esilarante; l'antropologa Claire (un'elettrica Ann Miller) è una forza della natura intellettuale e fisica, la cui passione repressa trova sfogo in una danza distruttiva tra i reperti di un museo. Non sono oggetti del desiderio, ma motori dell'azione, alla pari delle loro controparti maschili.
Sotto la superficie smagliante del Technicolor e l'effervescenza dei numeri musicali, tuttavia, serpeggia una corrente di malinconia. L'intera narrazione è scandita dall'inesorabile ticchettio dell'orologio. Il "giorno" del titolo non è solo un'unità di tempo, ma il vero antagonista del film. Questa gioia è così intensa proprio perché è effimera, una fiammata destinata a spegnersi alle prime luci dell'alba successiva. Il balletto "A Day in New York", coreografato da Kelly, è il cuore tematico ed emotivo dell'opera. È il viaggio onirico di Gabey, una fantasia in cui il marinaio ingenuo si trasforma in un eroe romantico e la ragazza della metropolitana in una ballerina eterea. È un pezzo di metacinema straordinario, una riflessione sulla capacità dell'arte (e del cinema) di trasfigurare il quotidiano, di elevare un incontro fugace a epopea sentimentale. Ma anche questo sogno finisce. Il finale del film è di una dolcezza struggente che anticipa quasi il cinema di Richard Linklater in Prima dell'alba. Non c'è un "e vissero per sempre felici e contenti", ma un arrivederci carico di promesse e incertezze. Mentre i nostri tre eroi, esaurita la loro licenza di sognare, risalgono a bordo, una nuova leva di marinai sbarca a terra, pronta a iniziare il proprio giorno a New York. Il ciclo si ripete, l'energia della città si rinnova.
Un giorno a New York è più di un capolavoro del genere musicale. È una capsula del tempo cinetica che conserva intatta l'energia di un'intera nazione in un momento irripetibile della sua storia. È un haiku muscolare sulla caducità della felicità e sulla necessità di afferrarla con tutta la forza possibile. Guardarlo oggi significa compiere un'operazione quasi archeologica, riscoprendo le fondamenta di un'estetica che influenzerà tutto, da Jacques Demy a Damien Chazelle. È la dimostrazione che il cinema, nella sua forma più pura, non si limita a raccontare storie, ma può incarnare un sentimento, trasformare una città in un'orchestra e condensare l'intera gamma dell'esperienza umana nell'arco di ventiquattro, indimenticabili ore.
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