Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Una giornata particolare

1977

Vota questo film

Media: 4.00 / 5

(1 voti)

La Storia, quella con la S maiuscola, è un’onda anomala che travolge tutto, un rumore assordante che si impone come unica colonna sonora possibile. Il 6 maggio 1938, a Roma, questo rumore ha il timbro metallico e marziale della voce di un radiocronista che narra, con enfasi epica, l'incontro tra due apocalissi ambulanti: Adolf Hitler in visita a Benito Mussolini. Ettore Scola, con un gesto di sublime insubordinazione cinematografica, sceglie di raccontare quel giorno tappandosi le orecchie. O meglio, decide di usare quel frastuono come un fondale, un ronzio cosmico di sottofondo contro cui far risuonare il sussurro di due solitudini. Una giornata particolare non è un film sulla parata; è un film su chi a quella parata non c'è andato, o non è stato invitato. È un film sull'interstizio, sulla crepa nel monolite del consenso.

L’intera narrazione è un Kammerspiel dilatato alle dimensioni di un intero condominio, i palazzi Federici, un esempio di architettura razionalista che si trasforma in un labirinto esistenziale. Questo gigante di cemento non è una semplice location, ma un organismo vivente, un alveare umano svuotato dalla grande cerimonia collettiva. Scola e il suo direttore della fotografia, Pasqualino De Santis, lo immergono in una luce seppiata, desaturata, che non è un vezzo stilistico ma una dichiarazione d'intenti. È il colore della memoria sbiadita, delle fotografie ingiallite, ma soprattutto è una deliberata sottrazione cromatica alla retorica sgargiante del regime. Il Fascismo si auto-rappresentava con i rossi accesi, i neri profondi, le aquile dorate; Scola ci restituisce il grigiore polveroso della sua realtà quotidiana, lo squallore dietro la facciata.

In questo teatro del vuoto si muovono due fantasmi. La prima è Antonietta, interpretata da una Sophia Loren che compie un'operazione di auto-sabotaggio divistico senza precedenti. Spogliata di ogni glamour, la Loren diventa l'archetipo della casalinga repressa, madre di sei figli, moglie di un becero funzionario statale e devota fedele del Duce. La sua identità è un collage di ruoli imposti: madre prolifica per la patria, angelo del focolare, massaia. La sua giornata inizia con la routine di sempre, al servizio di una famiglia che la dà per scontata, mentre la radio gracchia l'epopea del giorno. È un automa intrappolato in un copione che non ha scritto. Il suo risveglio, lento e doloroso, non sarà politico, ma squisitamente umano.

L'elemento perturbatore, il catalizzatore del cambiamento, arriva sotto le spoglie di un pappagallo evaso. È così che Antonietta incontra Gabriele, un Marcello Mastroianni altrettanto trasfigurato. Se la Loren si spoglia della sua icona di bellezza mediterranea, Mastroianni disinnesca la sua aura di seduttore cinico e intellettuale per incarnare una fragilità straziante. Gabriele è un ex radiocronista, epurato perché omosessuale, in attesa di essere mandato al confino. È l'Altro assoluto, il "diverso" che il regime non può tollerare perché incrina la sua immagine di virilità monolitica. È un uomo colto, sensibile, la cui esistenza è una negazione vivente di tutto ciò che la radio sta celebrando.

L'incontro tra queste due anime esiliate – lei esiliata nel suo ruolo di genere, lui nella sua identità sessuale – è una delle più delicate e potenti storie di connessione umana mai portate sullo schermo. Il film si sviluppa come una danza di avvicinamento e ritrosia. Inizialmente, Antonietta è diffidente, imbevuta dei pregiudizi del suo tempo. Vede in Gabriele tutto ciò che le è stato insegnato a disprezzare. Ma la solitudine condivisa è un solvente più forte dell'ideologia. In quel palazzo deserto, sono gli unici due esseri umani a non partecipare al rito collettivo. Sono, per usare un termine caro a certa fantascienza, due "singolarità" in un universo di conformità. Il loro dialogo diventa un processo di reciproca rivelazione. Lui le mostra la vacuità della retorica che lei idolatra; lei, con la sua disperata normalità, gli offre un barlume di calore umano prima dell'abisso.

La sequenza della rumba sul terrazzo è un momento di pura trascendenza cinematografica. È un ballo goffo, improvvisato, sulle note di una vecchia canzone. Per pochi minuti, Antonietta e Gabriele creano una bolla di intimità che li isola dal mondo. Non è un ballo di seduzione, ma un disperato tentativo di affermare la propria esistenza al di fuori delle etichette che li schiacciano. È un gesto quasi politico nella sua assoluta privatezza, un'eco lontana delle sale da ballo viscontiane, ma svuotata di ogni aristocrazia e riempita di una tenerezza proletaria e struggente. È un momento che ricorda la grazia improvvisa di certi personaggi di Čechov, capaci di trovare un istante di bellezza assoluta sull'orlo della rovina.

Scola orchestra questo duetto con una maestria che ha del miracoloso. La macchina da presa si muove con fluidità, legando i personaggi agli spazi, seguendoli dalle scale ai terrazzi, creando un senso di claustrofobia e, allo stesso tempo, di infinita possibilità. L'uso del sonoro è geniale: la radio non è mai solo un sottofondo, ma il terzo personaggio del film. È la voce del potere, la narrazione ufficiale che tenta costantemente di sopraffare le voci flebili dei protagonisti. Le loro conversazioni intime sono un atto di resistenza contro il suo volume assordante. È il teleschermo orwelliano ante litteram, che non spia ma indottrina, riempiendo ogni silenzio, dettando il pensiero corretto.

Una giornata particolare può essere letto come un'opera profondamente meta-testuale. Ambientato nel 1938 ma girato nel 1977, durante gli Anni di Piombo, il film è anche una riflessione amara sulla natura del consenso, sul fascino pericoloso dell'uomo forte e sulla fragilità delle libertà individuali in ogni epoca. Non è un film storico nel senso didascalico del termine; è un'opera che usa il passato come una lente per ingrandire le nevrosi eterne del presente. La solitudine di Antonietta e Gabriele non è confinata a quel 6 maggio; è la solitudine universale di chi non si riconosce nella narrazione dominante, di chi si sente stonato nel coro.

Il finale è di una crudeltà necessaria e perfetta. Non c'è catarsi, non c'è liberazione. Gabriele viene prelevato e portato via, verso il suo destino di esiliato. Antonietta torna dal marito, che la possiede con la stessa noncuranza con cui si mangia un piatto di minestra, e riprende il suo posto nel focolare domestico. Eppure, qualcosa si è rotto per sempre. Quando spegne la luce sul libro che Gabriele le ha regalato (I tre moschettieri, un'ode all'amicizia virile che assume qui una valenza ironica e struggente), il suo sguardo non è più quello della donna che abbiamo conosciuto all'inizio. È lo sguardo di chi ha visto oltre il velo. Non è un'eroina, non si ribellerà, ma ora sa. Ha acquisito una consapevolezza tragica, la più dolorosa di tutte. La Storia, con il suo rumore, ha ripreso il sopravvento, ma per poche ore, in un palazzo quasi vuoto, due voci umane hanno osato sussurrare una contro-narrativa. Ed è in quel sussurro, flebile ma indimenticabile, che risiede l'immensa, eterna potenza del cinema di Ettore Scola.

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6
Immagine della galleria 7
Immagine della galleria 8

Commenti

Loading comments...