Under the Skin
2014
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Regista
Un segnale radio interstellare captato per caso, un messaggio in una bottiglia cosmica che nessuno ha mai davvero decifrato. L’opera di Jonathan Glazer, Under the Skin, non è un film nel senso convenzionale del termine; è un artefatto alieno, un oggetto cinematografico caduto sulla Terra la cui logica interna ci è quasi del tutto inaccessibile. Come il monolito nero di 2001: Odissea nello spazio, ci sta di fronte, muto e perfetto, e il nostro tentativo di interpretarlo dice più sulla nostra specie che sulla sua natura intrinseca. La sua superficie è liscia, riflettente, e ci costringe a specchiarci nel suo abisso.
Il film si presenta, nella sua ossatura, come un processuale spietato. Un’entità predatrice, che indossa la pelle di Scarlett Johansson, percorre le strade umide e grigie della Scozia a bordo di un furgone bianco. La sua missione è semplice, quasi etologica: adescare uomini soli, portarli in una tana non-euclidea – un limbo di nero liquido e pareti invisibili – e lasciarli sprofondare in un oblio oleoso dove vengono, presumibilmente, processati. Questa routine, ripetuta con la precisione di un algoritmo, è filmata da Glazer con un’estetica che fonde il rigore kubrickiano con l’imprevedibilità del cinéma-vérité. Molte delle scene di adescamento, infatti, sono state girate con camere nascoste, utilizzando come vittime ignari passanti scozzesi, trasformando il film in un perturbante esperimento di antropologia predatoria. Il pubblico diventa parte della caccia, le loro reazioni non recitate un documento agghiacciante della nostra vulnerabilità e del nostro desiderio.
La vera natura del film, tuttavia, non risiede nel suo scarno plot, ma nel suo linguaggio sensoriale. La colonna sonora di Mica Levi non è un accompagnamento, è un sistema nervoso. È un ronzio di sinapsi aliene, una partitura atonale e dissonante che traduce l’esperienza interiore dell’entità. Le viole scordate stridono come metallo su vetro, un battito cardiaco sintetico scandisce il ritmo della caccia, micro-melodie infantili e sinistre emergono e scompaiono come pensieri rudimentali. È il suono di una coscienza che impara il mondo attraverso pattern e frequenze, prima che attraverso emozioni. Senza la partitura di Levi, Under the Skin sarebbe un esercizio formale impeccabile ma freddo; con essa, diventa un’immersione totale in una soggettività radicalmente Altra.
La scelta di Scarlett Johansson è un colpo di genio meta-testuale. Negli anni Dieci del Duemila, Johansson non era solo un’attrice, ma un’icona globale, un’immagine-merce la cui pelle, il cui corpo, era diventato un significante culturale potentissimo. Glazer prende questa icona, questo simulacro di desiderio, e la svuota. La spoglia di ogni vezzo, di ogni psicologia, riducendola a una superficie, un’esca perfetta. La sua performance è un capolavoro di sottrazione: i suoi occhi osservano senza giudicare, la sua voce è piatta, i suoi movimenti sono efficienti, quasi robotici. È la bambola assassina di un racconto gotico spaziale. In questo, il film diventa una critica feroce e obliqua allo sguardo maschile (the male gaze). Gli uomini che salgono sul suo furgone non vedono lei, ma la proiezione del loro desiderio sulla sua pelle di star. Lei, a sua volta, li guarda con la stessa oggettivazione con cui loro guardano lei: non sono persone, ma risorse, carne da macello. È un gioco di sguardi dove l’umanità è sospesa, un duello di predatori che non sanno di esserlo.
E poi, qualcosa si incrina. Il sistema perfetto, l’algoritmo impeccabile, incontra un’anomalia. L’incontro con l’uomo affetto da neurofibromatosi (un magnifico e coraggioso Adam Pearson) è il cuore pulsante e straziante del film. Per la prima volta, la preda non corrisponde al modello. Il suo corpo, segnato dalla malattia, sfida la logica estetica della caccia. Eppure, sotto quella pelle, l’entità percepisce una gentilezza, una vulnerabilità che non è solo quella della vittima sacrificale. Nel momento in cui decide di liberarlo dal limbo nero, l’entità commette il suo primo, fatale atto di empatia. È un errore di sistema, un bug nel software che innesca una reazione a catena. Questo singolo gesto di pietà la espelle dalla sua funzione e la condanna a un esilio esistenziale. Inizia a sentire.
Da cacciatrice diventa fuggitiva. Abbandona il furgone, la sua pelle artificiale ora un peso, un costume che non sa più come abitare. Il suo viaggio diventa un’esplorazione a ritroso dell'esperienza umana. Cerca di mangiare una fetta di torta, ma il suo corpo la rigetta: il piacere le è precluso. Tenta un approccio sessuale con un uomo gentile che la soccorre, ma l'atto fisico le rivela solo la sua estraneità meccanica, la sua radicale differenza ontologica. La sua ricerca di umanità è un fallimento epistemologico. Non può capire cosa significhi essere umani perché le manca l'hardware biologico, la vulnerabilità della carne. La sua è la tragedia del Golem che, sfiorata l’anima, scopre di non poterla contenere. Il parallelismo più calzante non è forse tanto con altri film di fantascienza, come il pur affine L'uomo che cadde sulla Terra di Nicolas Roeg, quanto con il Frankenstein di Mary Shelley: una creatura assemblata che si scontra con la crudeltà del mondo nel momento in cui sviluppa una coscienza.
Il finale, ambientato in una foresta nebbiosa che sembra uscita da un quadro di Caspar David Friedrich, è di una brutalità cosmica. Assalita da un predatore umano, un violentatore, scopre la forma più abietta dell’umanità. Nel tentativo di difendersi, la sua pelle si lacera, rivelando la creatura nera e lucida sottostante. L’orrore del suo aggressore non è diretto all'alieno, ma alla donna che non è più tale. È il terrore del maschio di fronte al corpo femminile che si rivela incomprensibile, altro da sé. La sua vera forma, una sorta di manichino fragile e androgino, viene data alle fiamme. Mentre brucia, l'entità osserva il suo stesso corpo consumarsi, forse provando per la prima volta la paura, l’emozione più primordiale e umana di tutte. L'ultima inquadratura, una colonna di fumo che sale verso un cielo indifferente, è il requiem silenzioso per un tentativo di contatto fallito.
Under the Skin è un’esegesi visiva dell’alienazione. Non solo quella dell'extraterrestre tra noi, ma la nostra, quella che proviamo di fronte al nostro stesso corpo, ai nostri desideri, alla nostra solitudine. Glazer ha preso il romanzo satirico e più verboso di Michel Faber e lo ha distillato nella sua essenza più pura e terrificante, trasformandolo in un’esperienza cinematografica quasi pre-linguistica, fatta di immagini archetipiche e suoni viscerali. È un film che si insinua, come suggerisce il titolo, sotto la pelle dello spettatore, lasciandolo con un profondo senso di disagio e meraviglia. Un capolavoro gelido e incandescente, che ci ricorda come il grande cinema di fantascienza non parli mai di futuri lontani o galassie remote, ma usi l’involucro dell’ignoto per scandagliare, con spietata lucidità, il mistero più grande di tutti: noi stessi.
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