Uomini veri
1983
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Regista
Un tuono secco squarcia il silenzio del deserto del Mojave. Non è un suono naturale, ma un boato demiurgico, la voce di un demone tecnologico che viene domato per la prima volta. È l'istante in cui Chuck Yeager, a bordo del Bell X-1, infrange il muro del suono, e con esso una barriera non solo fisica, ma mitopoietica. Philip Kaufman, con un'intuizione che trasfigura il saggio di Tom Wolfe in un'epopea cinematografica di respiro omerico, apre la sua sinfonia sull'alba dell'era spaziale non con i razzi scintillanti di Cape Canaveral, ma con la figura solitaria di un cavaliere del Ventesimo secolo. Yeager, incarnato con la grazia laconica e la gravitas di un monolito da Sam Shepard, non è un astronauta. È qualcosa di più antico e fondamentale: l'ultimo eroe del West, l'ultimo uomo che sfida la frontiera in solitudine, la cui ricompensa non è la copertina di Life, ma una bistecca e un bicchiere offerti da una Pancho Barnes nel cui bar si respira l'aria di una frontiera che sta per essere addomesticata, confezionata e venduta al pubblico.
Uomini veri è un'opera stratificata, un kolossal che danza con agilità tra il documentarismo della New Journalism e l'afflato lirico di un poema nazionale. La sua grandezza risiede proprio in questa schizofrenia controllata, nella sua capacità di celebrare un mito mentre, con un bisturi affilato e ironico, ne disseziona il processo di costruzione. Kaufman mette in scena una dicotomia fondamentale, quasi un conflitto tra due religioni americane. Da un lato, il culto dell'individuo, dell'eroismo silenzioso e della competenza pura, incarnato da Yeager e dai piloti collaudatori di Edwards Air Force Base. Il loro cielo è un'arena privata, i loro jet sono destrieri riottosi, e il "right stuff" – la stoffa giusta – è una qualità quasi mistica, un codice non scritto di coraggio e freddezza sotto pressione, incomprensibile ai burocrati e ai giornalisti. È un mondo che John Ford avrebbe riconosciuto, un paesaggio morale dove il valore si misura nell'azione, non nella narrazione dell'azione.
Dall'altro lato, sorge la nuova cattedrale: la NASA e il Progetto Mercury. Qui, l'eroismo non è più un atto privato, ma uno spettacolo pubblico, una campagna di marketing orchestrata per sconfiggere i sovietici nella Guerra Fredda. I Mercury Seven non sono scelti solo per la loro abilità, ma per la loro "immagine". Diventano i primi eroi mediatici dell'era televisiva, prodotti brandizzati di un'America kennediana ossessionata dall'idea di una "Nuova Frontiera". Kaufman ce li mostra intrappolati in un paradosso squisitamente moderno: sono piloti eccezionali, uomini coraggiosi costretti a diventare, come dice uno di loro, "spam in a can", carne in scatola sparata nello spazio. La loro battaglia più dura non è contro la forza di gravità, ma contro gli ingegneri che li vedono come meri passeggeri e contro la macchina delle pubbliche relazioni che li trasforma in boy scout sorridenti e famiglie perfette. La scena in cui litigano per ottenere un oblò nella capsula o il controllo manuale dei comandi è emblematica: è la lotta per non essere ridotti a semplici cavie, per riaffermare la propria identità di piloti, la propria "stoffa giusta".
Questa tensione tra l'archetipo e il prototipo, tra il mito organico e quello ingegnerizzato, è il cuore pulsante del film. Kaufman adotta uno stile visivo e narrativo che riflette questa dualità. La fotografia di Caleb Deschanel contrappone la polvere ocra e le luci abbaglianti del deserto – un regno di fisicità primordiale – con i corridoi asettici e le luci al neon dei centri di controllo NASA, luoghi di astrazione e burocrazia. La colonna sonora di Bill Conti è un capolavoro di sintesi culturale: fonde l'eroismo marziale e l'ampiezza sinfonica di The Planets di Holst con le melodie pastorali e profondamente americane di Aaron Copland, suggerendo che questa corsa verso le stelle è, in fondo, l'ennesima variazione del Destino Manifesto.
Il film è una traduzione quasi miracolosa dello stile di Tom Wolfe. Come lo scrittore, Kaufman salta tra punti di vista, mescola l'epico e il farsesco, il sublime e il ridicolo. Momenti di pura poesia visiva – il volo di Yeager che sfiora la curvatura terrestre, i frammenti di luce danzanti attorno alla capsula di John Glenn come "lucciole" celesti – si alternano a sequenze di satira sferzante. La selezione degli astronauti, con le sue prove mediche invasive e umilianti, assume i contorni di una commedia surreale, un rituale di spoliazione fisica e psicologica. L'orda di giornalisti che assedia le case degli astronauti è descritta come uno sciame di insetti, una forza della natura tanto potente e incontrollabile quanto un motore a razzo.
La struttura corale, che potrebbe facilmente sfociare nella dispersione, è invece uno dei punti di forza dell'opera. Kaufman gestisce un cast monumentale con la destrezza di un Robert Altman, concedendo a ogni personaggio un momento per definire la propria umanità. Ed Harris è un John Glenn perfetto nella sua rettitudine quasi irritante, un uomo la cui fede in Dio, Patria e Famiglia è indistinguibile dalla sua ambizione. Scott Glenn regala ad Alan Shepard una spavalderia magnetica, mentre Dennis Quaid fa di Gordon Cooper un giullare dal talento immenso. Fred Ward, nei panni del burbero e sfortunato Gus Grissom, incarna il lato oscuro del sogno: l'eroe che fallisce, che viene ingiustamente macchiato dal dubbio.
Ma la figura che aleggia su tutto il film, anche quando non è in scena, è lo Yeager di Shepard. È il fantasma al banchetto, lo standard aureo con cui tutti vengono misurati. Mentre gli astronauti diventano celebrità planetarie, lui rimane nel deserto, a spingere i limiti per sé stesso, non per le telecamere. La sua traiettoria narrativa è quella di un eroe tragico in un'epopea che non è più la sua. Il suo volo finale, un tentativo disperato di raggiungere le stelle con un aereo, quasi uno Icaro moderno che sfida gli dèi della nuova era, si conclude con un fallimento glorioso. Il suo vagare nel deserto, il volto bruciato, figura annerita che cammina verso un'ambulanza, è una delle immagini più potenti del cinema americano degli anni '80. È l'icona di un'era che muore, un Prometeo che ha rubato il fuoco ma è stato lasciato indietro dalla civiltà che ha contribuito a creare.
Uomini veri è, in definitiva, un'opera meta-testuale sulla fabbricazione dell'immaginario americano. Non è solo il racconto della nascita del programma spaziale, ma un'analisi di come una nazione costruisce i propri dèi e le proprie leggende nell'era della riproducibilità tecnica. Il finale, con il rituale degli aborigeni australiani che osservano il volo di Cooper, crea un cortocircuito temporale e culturale di una profondità vertiginosa. Le fiamme del loro fuoco ancestrale si specchiano nelle fiamme del rientro atmosferico, collegando l'impulso più antico dell'umanità – guardare il cielo con timore e meraviglia – con la sua più audace conquista tecnologica. In quel momento, Kaufman suggerisce che, al di là della propaganda, della competizione e del circo mediatico, ciò che spinge uomini come Yeager e i Mercury Seven è lo stesso, identico spirito. La stessa "stoffa giusta" che, in forme diverse, ha sempre definito la nostra specie: una curiosità indomabile e il coraggio di avventurarsi nel grande, terrificante vuoto.
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