Senza Tetto né Legge
1985
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Regista
Uno splendido film vincitore del Leone d’oro a Venezia firmato da una grande regista, Agnes Varda, troppo spesso dimenticata. Una delle voci più singolari e coraggiose del cinema francese, Varda – cofondatrice e figura di spicco della Rive Gauche, corrente parallela e forse ancor più intellettualmente audace della Nouvelle Vague – ha sempre percorso sentieri autonomi, forgiando un linguaggio visivo che lei stessa ha definito "cinécriture": un'arte di scrivere con le immagini, intrisa di una curiosità quasi antropologica per l'umano e il suo rapporto con l'ambiente. Questo Leone d'Oro, ottenuto nel 1985, non fu solo un riconoscimento tardivo per una carriera già densa di opere significative, ma l'affermazione di un cinema di frontiera, capace di indagare con disarmante onestà le crepe della società e dell'anima.
Il film è focalizzato sulla vita sregolata di una giovane donna, Mona Bergeron, iniziando dal suo tragico epilogo: il ritrovamento del cadavere della povera ragazza morta di freddo e stenti in mezzo ad un campo. Un'immagine emblematica, quasi pittorica nella sua desolazione, che imprime immediatamente un tono di irredimibile fatalità. Questo espediente narrativo, che rovescia la cronologia tradizionale, trasforma il racconto in una sorta di inchiesta postuma, un puzzle di frammenti e testimonianze che cercano, senza mai riuscirci del tutto, di ricostruire la fisionomia di un'esistenza.
La sua vita viene ripercorsa attraverso flashback seguendone i vagabondaggi. Non si tratta però di un semplice viaggio fisico, ma di un'odissea esistenziale, un nomadismo radicale che è al tempo stesso una scelta di libertà e una condanna all'isolamento. La Varda adotta qui una struttura quasi documentaristica, intervistando i vari personaggi che Mona ha incontrato lungo il suo cammino, dalle braccianti agricole ai professori universitari, dagli anziani contadini ai filosofi erranti. Ogni testimonianza aggiunge un tassello, ma lungi dal definire Mona, ne accentua il mistero, rivelando più le proiezioni e i pregiudizi di chi la osserva che la vera essenza della ragazza.
La vedremo combattere contro la diffidenza delle persone a causa del suo modo ramingo di vivere, arrabattarsi abbassandosi a fare i lavori più umili, vivere di poche cose sempre alla deriva, sempre ai margini di una società che non appare mai ostile ma diversa, aliena, inconoscibile. Questa è una delle chiavi di lettura più acute del film: la società non è rappresentata come un mostro opprimente, ma come un'entità fondamentalmente indifferente, o meglio, incapace di accogliere ciò che non rientra nelle sue categorie precostituite. Le persone incontrate da Mona non la respingono per cattiveria, ma per un’incomprensione radicata, per un disagio di fronte a un'esistenza che sfida ogni logica borghese di sicurezza, appartenenza e produttività. Mona è la scheggia impazzita che incrina la rassicurante superficie della normalità, costringendo chi la incontra a confrontarsi con i propri limiti e le proprie paure.
Fondamentalmente la gente che incontra non comprendendo il suo stile di vita fatica a trovarle un’identità. È un riflesso della nostra stessa incapacità di attribuire un ruolo o un significato a chi non si conforma alle aspettative sociali. Mona non ha un passato da redimere né un futuro da costruire secondo i canoni; la sua esistenza è puro presente, una successione di istanti vissuti con una libertà feroce e autodistruttiva. È in questo rifiuto di ogni etichetta, di ogni legame, di ogni "storia", che risiede la sua forza e al contempo la sua vulnerabilità estrema. Varda sembra suggerire che, in un mondo ossessionato dalle definizioni e dalle appartenenze, la vera libertà possa essere percepita solo come alienazione, e che il prezzo dell'autonomia assoluta sia l'esclusione definitiva.
Mona è come se fosse un fantasma che attraversa le loro vite lasciando un senso di sconcerto misto a ripugnanza. La metafora del fantasma è potentissima: Mona non lascia tracce, non si aggrappa a nulla, è pura energia in movimento, un'ombra fuggevole che evoca la precarietà dell'esistenza stessa. La "ripugnanza" non è tanto per la sua sporcizia o per la sua condizione di senzatetto, quanto per il terrore che la sua scelta di vita evoca: la perdita di ogni protezione, di ogni sicurezza, la caduta nel vuoto dell'ignoto. È la paura di ciò che non si può controllare, di ciò che non si può addomesticare, la paura della solitudine radicale che ogni essere umano, in fondo, porta in sé. Questo film, quindi, è meno un dramma sociale che un'indagine filosofica sulla natura della libertà e della resistenza.
La Varda è sempre interessata ad un aspetto più psicologico che narrativo nei suoi film, e anche in questo, che di fatto è il suo capolavoro, denuda le emozioni di Mona Bergeron, la sua anima vagabonda, con tenace purezza, con candida determinazione. Varda non giudica, non moralizza; si limita a mostrare, con uno sguardo che combina la fredda oggettività documentaristica e una profonda empatia poetica. Il suo approccio è quasi bressoniano nella sua essenzialità, ma con un calore umano e una curiosità estetica che sono unici. Il film è intriso di un'introspezione scarnificante, che non si affida a dialoghi esplicativi o a psicologismi da manuale, ma alla forza delle immagini, dei silenzi, dei gesti minimi. La "purezza" di Mona risiede nella sua autenticità, nella sua totale aderenza al suo essere più profondo, a costo di auto-annientarsi. La sua "determinazione" non è rivolta a un obiettivo, ma al mantenimento di uno stato, di una non-appartenenza, di un perpetuo "essere contro". Per Varda, Mona è un simbolo della resistenza umana, un faro tragico che illumina le rigidità di un sistema che non contempla la devianza se non come patologia.
Grande prova interpretativa di Sandrine Bonnaire che dona al film un afflato di passione e lirismo che ne fa un’opera amara e crepuscolare. La Bonnaire, al tempo giovanissima, incarna Mona con una forza magnetica e una sorprendente maturità. Il suo volto, spesso sporco e segnato, è uno specchio di una stanchezza profonda, ma anche di una resilienza indomabile. I suoi silenzi sono più eloquenti di mille parole, i suoi sguardi tradiscono un'anima tormentata ma inflessibile. È un'interpretazione fatta di sottrazione, di un corpo che parla più della voce, di una presenza scenica che assorbe e riflette la dura realtà circostante. Il lirismo del film emerge dalla sua capacità di trovare bellezza e dignità nella desolazione, nella lotta incessante contro gli elementi e l'indifferenza umana. Il paesaggio invernale, spoglio e ventoso, le luci naturali e la fotografia fredda, quasi monocromatica, contribuiscono a creare questa atmosfera crepuscolare, una sinfonia visiva che accompagna il declino ineluttabile di Mona, trasformando la sua fine non solo in una tragedia personale ma in un'inquietante riflessione sulla libertà, la solitudine e il destino dell'individuo in una società che, volente o nolente, non tollera i suoi fantasmi.
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