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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Vertigine

1944

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Un ritratto incorniciato domina il lusso funereo di un appartamento newyorkese. Non è un semplice oggetto di scena, ma un portale, un’icona bizantina traslata nel ventesimo secolo, il MacGuffin dell'anima attorno al quale Otto Preminger orchestra la sua sinfonia di ossessioni. È il volto di Laura Hunt, la donna assassinata il cui cadavere sfigurato giace all’obitorio. O così sembra. Prima ancora di incontrare un solo personaggio in carne e ossa, incontriamo lei, o meglio, la sua sublime idealizzazione. È da questo feticcio pittorico che si dipana Vertigine (Laura, 1944), un’opera che solo un occhio pigro potrebbe archiviare come un semplice noir. In realtà, è un trattato sulla necrofilia platonica, una seduta spiritica mascherata da indagine poliziesCa, un sogno febbrile partorito nell'opulenza della Café Society della Seconda Guerra Mondiale.

Il detective Mark McPherson (un Dana Andrews granitico, quasi catatonico) è il nostro Virgilio in questo inferno d’alta classe. Ma a differenza dei segugi hardboiled di Chandler o Hammett, il suo cinismo è una patina sottile, destinata a essere corrosa dall'acido del desiderio. Entrando nell'appartamento di Laura, non indaga solo su un omicidio; compie un atto di voyeurismo archeologico. Ne legge le lettere, ne annusa i profumi, ne sorseggia i liquori, ne indossa quasi l'identità. E, soprattutto, fissa quel ritratto. La sua indagine diventa un corteggiamento postumo. Si innamora di un fantasma, di una narrazione costruita sui ricordi parziali e tossici di chi l'ha conosciuta. Preminger qui compie un gesto metacinematografico di rara intelligenza: McPherson diventa lo spettatore per eccellenza, che si innamora non di una persona, ma di un'immagine proiettata, di una storia assemblata da frammenti di luce e ombra.

L'architetto principale di questo fantasma è Waldo Lydecker, interpretato da un Clifton Webb la cui performance è una delle più corrosive e memorabili della storia del cinema. Lydecker, un influente e velenoso columnist, è il Pigmalione della vicenda. Ha "creato" Laura, l'ha plasmata da ragazza ingenua a icona di stile, e come ogni demiurgo geloso, non può sopportare che la sua creazione sviluppi una volontà propria. La sua narrazione, che apre il film con una voce fuori campo melliflua e arrogante, è il primo Vangelo apocrifo di Santa Laura. Webb, che proveniva dal teatro e che il capo della Fox, Darryl F. Zanuck, esitava a ingaggiare giudicandolo "troppo effeminato", porta sullo schermo una figura di intellettuale tossico, la cui arma non è la pistola ma la stilografica, il cui veleno è l'arguzia. Il suo appartamento, un covo di antichità e narcisismo con una vasca da bagno in bella vista dalla quale dispensa sentenze, è il tempio del suo ego. La sua relazione con Laura non è sessuale; è estetica, possessiva, autoriale. È l'artista che vuole firmare la sua opera d'arte con il sangue, se necessario.

Poi c'è il fidanzato, Shelby Carpenter (un Vincent Price viscido e affascinante), un parassita del Sud la cui bellezza è direttamente proporzionale alla sua debolezza morale. Se Lydecker rappresenta l'ossessione intellettuale, Carpenter incarna il desiderio carnale e opportunistico. Entrambi gli uomini non amano Laura, ma ciò che Laura rappresenta per loro: un trofeo, uno status symbol, uno specchio per le proprie insicurezze. In questo triangolo di uomini che orbitano attorno a un'assenza, McPherson si inserisce come il quarto incomodo, colui che desidera l'ideale puro, l'essenza distillata dal ritratto, non contaminata dalla realtà.

E poi, a metà film, il colpo di scena che eleva Vertigine da eccellente thriller a capolavoro filosofico. Laura Hunt (Gene Tierney, la cui bellezza quasi soprannaturale è essenziale per la riuscita del film) entra in scena. È viva. Il corpo sfigurato apparteneva a un'altra. L'idolo torna a essere carne. L'impatto di questo momento è devastante. Il fantasma si è incarnato, la Galatea è scesa dal piedistallo, e la delusione è palpabile. Per Lydecker, è una creazione che gli è sfuggita di nuovo di mano. Per McPherson, è il trauma di dover confrontare il suo sogno perfetto con una donna reale, complessa, forse persino deludente. Il film, da questo punto, smette di essere un'indagine su "chi ha ucciso Laura?" e diventa una riflessione su "chi è Laura?". La risposta è che Laura è, soprattutto, una proiezione. La sua identità è un campo di battaglia su cui gli uomini combattono per imporre la propria versione. È la tela bianca su cui ognuno dipinge i propri desideri e le proprie paure.

Questa perfezione formale e tematica nacque, come spesso accade, da un caos produttivo. Il regista originale, Rouben Mamoulian, fu licenziato dopo poche settimane. Fu Preminger, inizialmente solo produttore, a prendere le redini, cestinando quasi tutto il girato precedente e imponendo la sua visione algida e analitica. Insistette per Clifton Webb, contro il parere di Zanuck. Sostituì la fotografia di Gene Tierney voluta da Mamoulian con un ritratto dipinto, comprendendo che l'idealizzazione doveva essere manifesta, artistica, non realistica. Il suo stile registico è di una modernità glaciale: la macchina da presa si muove con una fluidità quasi spettrale, osservando i personaggi come entomologo, intrappolandoli nelle scenografie opulente che diventano le loro prigioni dorate. Non c'è l'espressionismo esasperato di molto cinema noir; la tenebra qui non è nelle strade, ma negli appartamenti di lusso, nelle menti dei protagonisti.

E come non menzionare la colonna sonora di David Raksin? La leggenda vuole che Raksin, incaricato di comporre il tema principale in un solo weekend dopo che Preminger aveva scartato "Sophisticated Lady" di Duke Ellington, trovò l'ispirazione dopo aver ricevuto una lettera di addio dalla moglie. Quella malinconia personale si trasfuse in una delle melodie più ossessive e struggenti mai scritte per il cinema. Il tema di "Laura" non è un semplice accompagnamento; è il respiro del film, l'equivalente sonoro del ritratto, un motivo che aleggia costantemente, evocando l'assenza, il desiderio e un romanticismo intriso di morte.

Uscito nel 1944, in un'America ancora immersa nello sforzo bellico, Vertigine offriva una fuga in un mondo di eleganza e intrigo, ma sotto la superficie patinata nascondeva un'inquietudine profondamente moderna. Se il noir classico raccontava la corruzione della città e la caduta dell'eroe, il film di Preminger spostava il campo di battaglia all'interno della psiche. È un'opera che anticipa di quasi quindici anni il suo omonimo spirituale, Vertigo di Hitchcock, nel sondare la follia di un uomo che cerca di plasmare una donna viva a immagine e somiglianza di un'amante morta. Ma dove Hitchcock esplode in un'opera lirica e barocca, Preminger lavora di bisturi, con una precisione chirurgica e una freddezza analitica.

Vertigine è più di un film; è una scatola dei sogni avvelenati. Un meccanismo a orologeria perfetto (simboleggiato dall'orologio rococò nell'appartamento di Lydecker, che si rivelerà un'arma del delitto) che smonta il concetto stesso di amore romantico, mostrandolo per quello che spesso è: un atto di prepotente immaginazione, un disperato tentativo di possedere non una persona, ma l'idea che ci siamo fatti di essa. E quando il detective, alla fine, "conquista" la donna, non possiamo fare a meno di chiederci quale Laura abbia davvero vinto: quella reale o quella che ha continuato a sognare, anche dopo averla vista in carne e ossa, mentre fissava incantato il suo ritratto. La risposta, come la melodia di Raksin, rimane sospesa nell'aria, meravigliosamente irrisolta.

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