Viaggio all'inferno
1991
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Un’opera cinematografica monumentale non si misura dalla sua aderenza alla cronaca, ma dalla sua capacità di trasfigurare la storia in mito, di distillare dal caos degli eventi un’essenza universale e terribile. Michael Cimino, con Viaggio all’inferno, non gira un film sulla Guerra del Vietnam; scolpisce un’epopea americana sulla perdita dell’innocenza, un’elegia funebre in tre atti che possiede la magniloquenza di un’opera di Wagner e la cruda, terrena fisicità di un romanzo di Steinbeck. È un film che respira con la lentezza ieratica di un rito, per poi squarciare il velo del quotidiano con una violenza che non è solo fisica, ma esistenziale.
Il prologo, ambientato nella cittadina industriale di Clairton, Pennsylvania, è uno dei più straordinari affreschi corali della storia del cinema. Cimino dilata il tempo, immergendoci in un microcosmo di immigrati russo-ortodossi la cui vita è scandita dal ritmo infernale dell’acciaieria e dalla sacralità delle tradizioni. Il matrimonio di Steven non è una semplice sequenza narrativa, è un’immersione antropologica che ricorda la meticolosità con cui Luchino Visconti ricostruiva i mondi aristocratici in declino; qui, però, l’oggetto di studio è il proletariato, la cui solidarietà virile, forgiata tra il calore delle fonderie e le birre bevute al bar, sta per essere messa alla prova definitiva. In questa prima ora, il Vietnam è solo un’eco lontana, un dovere patriottico sussurrato tra un ballo e l’altro. I protagonisti – Michael (un Robert De Niro al culmine del suo carisma controllato), Nick (un angelico e tormentato Christopher Walken) e Steven (John Savage) – sono ancora integri, definiti dal loro codice d’onore. Su tutti spicca la filosofia di Michael, il cacciatore: “One shot”. Un solo colpo. Una metafora della purezza, del controllo, di un’etica precisa che governa il rapporto tra l’uomo e la natura selvaggia, vista come un santuario, uno spazio numinoso dove misurare il proprio valore.
La cesura è brutale, un montaggio ellittico che è una dichiarazione di poetica. Dalla caccia sulle montagne della Pennsylvania, Cimino ci scaraventa nell'umido inferno della giungla vietnamita. Non c’è addestramento, non c’è viaggio; c'è solo l'orrore, immediato e assoluto. È qui che il film introduce il suo simbolo più potente e controverso: la roulette russa. Storicamente inesatta, criticata come una calunnia, la scelta di Cimino è in realtà una geniale astrazione allegorica. Non è un documento, è un incubo espressionista, una catabasi in un girone dantesco dove la vita umana è ridotta a una scommessa insensata, governata dal caso più cieco. La roulette russa è la negazione totale del "One shot" di Michael. Al controllo, alla mira, alla scelta etica, si sostituisce il clic casuale di un tamburo. È la quintessenza della follia della guerra, la sua logica nichilista portata alla più estrema e terrificante conseguenza. In quelle scene di una tensione quasi insostenibile, Cimino non sta rappresentando il Viet Cong, ma l'idea stessa della disumanizzazione, un meccanismo che può inghiottire chiunque, da qualsiasi parte della barricata. È il "Cuore di tenebra" di Conrad, il viaggio verso un Kurtz interiore che non è follia di onnipotenza, ma abdicazione totale al caos.
Il terzo atto, il ritorno a casa, è forse il più straziante. Se la guerra è l'inferno, il dopoguerra è un limbo popolato di fantasmi. Cimino descrive il trauma con una sensibilità che anticipa di decenni la comprensione comune del disturbo da stress post-traumatico. Michael torna, ma è un uomo scisso. Il suo corpo è a Clairton, ma la sua anima è rimasta incastrata in quella gabbia di bambù sul fiume. Il mondo che ha lasciato è rimasto identico, ma i suoi occhi lo vedono in modo diverso. La celebre scena in cui, di nuovo a caccia, ha il cervo nel mirino e sceglie di non sparare, è il culmine emotivo del suo percorso. Il "One shot" non ha più senso perché ha visto il suo rovescio demoniaco. Uccidere non è più un atto di abilità e controllo, ma solo un’eco della roulette. La sua etica è in frantumi.
In questo segmento emerge con forza la figura di Nick, interpretato da Walken con una fragilità eterea che gli valse un meritatissimo Oscar. Nick è colui che non torna mai veramente. È il reduce che si perde, la vittima perfetta del trauma che trova nell'azzardo mortale di Saigon l'unica forma di vita che riesce ancora a concepire. Il suo viso scavato, i suoi occhi vuoti, sono l'icona di un'intera generazione perduta. E non si può non menzionare la performance dolente di John Cazale nel ruolo di Stan, resa ancora più commovente dalla consapevolezza che l'attore, già malato terminale di cancro durante le riprese, stava vivendo la sua ultima stagione. La sua fragilità sullo schermo non è solo recitazione, è la vita reale che irrompe nell'arte, conferendo al film un'ulteriore, quasi insostenibile, patina di malinconia. Meryl Streep, dal canto suo, delinea una figura femminile di straordinaria dignità, un centro di gravità emotivo che tenta di tenere insieme i frammenti di un mondo che si disintegra.
Il finale, con i sopravvissuti che intonano timidamente "God Bless America" attorno a un tavolo dopo il funerale di Nick, è stato spesso frainteso come un'affermazione patriottica. È l'esatto contrario. Non è un inno trionfale, ma un requiem sussurrato. È il tentativo disperato di un gruppo di persone spezzate di aggrapparsi a un simbolo, a un'idea di comunità e di nazione, per trovare un senso in un dolore che non ha parole per essere espresso. È un canto funebre, stonato e fragile, che suona più come una domanda che come una certezza. C’è più Hemingway in quella scena che in mille discorsi politici: la dignità composta dei sopravvissuti, la ricerca di un rituale per contenere il vuoto.
Viaggio all'inferno è cinema epico nel senso più puro del termine: non si preoccupa della verosimiglianza minuto per minuto, ma della Verità emotiva e simbolica. È un film che si prende i suoi tempi, che osa essere lento, contemplativo, prima di colpire con la precisione di un cecchino. La fotografia di Vilmos Zsigmond trasforma i paesaggi industriali della Pennsylvania in tele di Hopper e le giungle del Vietnam in gironi fiammeggianti degni di Bosch. Cimino, con l'ambizione quasi folle che lo porterà poi al disastro commerciale di I cancelli del cielo, qui riesce a governare una materia incandescente, creando un'opera che trascende il suo contesto storico per parlare del legame tra violenza e mascolinità, della fragilità dei legami comunitari e dell'impossibilità di "tornare a casa" quando una parte di te è morta in un luogo lontano. Non è un film da guardare; è un’esperienza da sopportare, un rito di passaggio cinematografico che lascia cicatrici indelebili nell'anima dello spettatore.
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