Videodrome
1983
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Regista
Max Renn è sempre alla ricerca di roba forte da trasmettere sul suo canale televisivo Channel 83. Un’emittente minore, perennemente affamata di contenuti scabrosi, che si muove ai margini della decenza televisiva, specchio di una cultura underground in cerca di un sensazionalismo sempre più spinto.
Quando s’imbatte in Videodrome, una serie con scene di un’efferatezza e di una violenza senza uguali, rimane quasi ipnotizzato. Non è la semplice brutalità a catturare Max, bensì la disturbante autenticità di ciò che sembra essere un vero e proprio snuff movie. Quell’estremismo visivo si rivela ben presto essere non un semplice programma televisivo, ma una porta sull’ignoto, una sorta di tunnel lisergico in cui la coscienza viene annullata attraverso un processo mistificatorio che provoca allucinazioni e desiderio di morte. La visione non è passiva; è un contagio, un virus audiovisivo che inocula una realtà alterata direttamente nel lobo temporale dello spettatore. La percezione di Max, e con essa la sua stessa identità, inizia a frammentarsi sotto l'assalto di impulsi catodici.
Indagando sulla provenienza del programma, scoprirà che il produttore che lo manda in onda, la tentacolare Spectacular Optical del Professor Brian O'Blivion e del suo pragmatico braccio destro Barry Convex, ha intenzione di dominare il mondo attraverso l’annullamento della volontà di chi lo guarda. Non si tratta di una banale cospirazione per il potere, ma di un tentativo di rimodellare la realtà stessa, di epurare la società da ciò che O’Blivion definisce la "vecchia carne", corrotta e debole, per far nascere una "nuova carne" plasmata dalla violenza e dalla rinuncia alla coscienza individuale. La metafora sul regno dei media, e particolarmente della TV, è fin troppo chiara, eppure la sua profondità va oltre il semplice ammonimento.
Attraverso la scatola luminosa s’irradiano nefasti sortilegi che sovvertono le coscienze, instillando falsi desideri e stravolgimento della realtà. Il film, permeato da un'angoscia viscerale, anticipa di decenni dibattiti sulla "realtà aumentata" e sulla pervasività dell'immagine. Cronenberg, che si ispira esplicitamente a Marshall McLuhan e alla sua teoria per cui "il mezzo è il messaggio", eleva la televisione da semplice trasmettitore a entità organica e manipolatrice. Il mezzo non si limita a veicolare un contenuto; esso stesso diviene il contenuto, una protesi del sistema nervoso centrale capace di riprogrammarlo. L'allucinazione diviene reale, il corpo si fa schermo e l'anima si fonde con il segnale distorto.
Oltre alla critica del potere mediatico, c’è un’analisi profonda tra uomo e macchina, tra cervello ed informazione, che è il cuore pulsante dell'estetica cronenberghiana. Il regista canadese traspone su pellicola atmosfere oscure e angoscianti per definire la relazione tra coscienza critica e messaggio, tra realtà e iperuranio catodico. Questa dicotomia tra io e altro da sé televisivo è sintesi di una paranoia tecnologica che permea gran parte della sua filmografia, da Scanners a Crash, da Il pasto nudo a eXistenZ. In Videodrome, l'organico e il meccanico non sono più entità separate, ma si compenetrano in una simbiosi aberrante e terrificante, resa tangibile dagli effetti speciali pionieristici di Rick Baker, che trasformano il corpo di Max in un incubo bio-meccanico. Il celebre slot VCR che si apre nel suo addome o la pistola che si fonde con la sua mano non sono semplici orrori visivi, ma manifestazioni della sua irreversibile mutazione. Max non è più un mero spettatore, ma il campo di battaglia su cui si gioca la vera evoluzione.
Questa fusione è sintetizzata nella meravigliosa scena in cui Max si trova di fronte una conturbante Nicki Brand (Debbie Harry) che dallo schermo della TV con sensualità traboccante lo invita ad unirsi a lei. Nicki non è solo una donna fatale, ma l'incarnazione della "nuova carne", una sirena digitale che lo attira nell'abisso della trasformazione. La tv si scuote gonfiandosi e vibrando come in un erotico gioco in cui lo spettatore è preda designata. Max si avvicina lentamente allo schermo accarezzando la tv mentre la bocca carnosa di Debbie Harry in primo piano sembra esondare dallo schermo, le labbra lucide e invitanti che si estendono oltre la cornice, come un'appendice carnosa che cerca il contatto. Quando la testa di Max e lo schermo si uniscono quasi per osmosi formando un’unica entità, la fusione tra uomo e media può dirsi completa: la coscienza è annegata nella malìa della trasmissione e lo spettatore è stato definitivamente fagocitato. Ma ciò che sembra un annientamento è, per i fautori di Videodrome, una rinascita. La scena finale, con Max che, pronunciando il mantra "Lunga vita alla nuova carne!", si spara alla testa, non è un suicidio, ma un'ulteriore e definitiva mutazione, un balzo evolutivo nel cyberspazio della carne e del segnale. "Videodrome" non è solo un film sull'orrore della tecnologia, ma sulla seduzione di un futuro incerto e terrificante, un monito inquietante che risuona oggi più che mai nella nostra era di realtà virtuali, deepfake e dipendenza digitale.
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