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Viridiana

1961

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Dopo avervi alluso e averlo sfiorato nei suoi precedenti film – da Él alla geniale irriverenza di Nazarín –, Buñuel affronta di petto il tema del misticismo, e segnatamente della religione in rapporto all’uomo che cerca una via di redenzione. Non è una ricerca spirituale nel senso canonico, bensì un’indagine spietata sulla persistenza della fede in un mondo corrotto, sulla fragilità delle buone intenzioni di fronte alla crudezza della natura umana e sull'assurdità intrinseca della pretesa di santità. Buñuel, il maestro del surrealismo cinematografico, intinge ancora una volta la sua penna nell'inchiostro dell'irriverenza e dell'analisi psicologica, svelandoci le ipocrisie e le pulsioni represse che si annidano sotto la superficie della devozione.

Nasce così quest’opera densa di situazioni morbose, di tensioni verso propositi sublimi e di sordidi effetti alquanto terreni. Il film è un vero e proprio saggio per immagini sulla dialettica tra ideale e reale, tra purezza angelica e bestialità atavica. La vicenda si dispiega con una logica quasi matematica nel suo inesorabile precipitare verso l'antitesi più crudele.

La storia è quella di Viridiana, orfana dei genitori e sul punto di prendere i voti perpetui, che va in visita al ricco zio, Don Jaime, un uomo che ha vissuto in un limbo di lutto e solitudine dopo la morte della moglie. L’uomo se ne innamora perdutamente, un amore malato, intriso di necrofilia simbolica – la sua ossessione per il ricordo della defunta consorte si proietta sulla nipote, al punto da farle indossare l'abito nuziale della moglie. La sua è una passione che non ammette mezze misure, una devozione perversa che rovescia i canoni dell'amore puro in un tentativo di possesso sordido e disperato. A fronte di questa sua scellerata passione e di un tentativo di violenza carnale – sfiorata solo per l’improvvisa paralisi della coscienza o, forse, per una suprema umiliazione di sé – l’uomo s’impicca, lasciando ogni suo avere a Viridiana. Questo evento traumatico non la distoglie, in un primo momento, dal suo percorso spirituale. Anzi, sembra rafforzare in lei una sorta di orgoglio mistico, la convinzione di dover espiare e redimere attraverso un'opera di carità radicale.

Inizierà così un percorso mistico della giovane che compirà varie opere di carità, accogliendo nella sua tenuta un gruppo di mendicanti e derelitti, cercando di trasformare il lascito dello zio in un santuario di bontà e compassione. Ma questi suoi sforzi, animati da una purezza di intenti quasi infantile, immancabilmente le si ritorceranno contro. I poveri, lungi dall'essere figure evangeliche di umiltà e gratitudine, si rivelano un campionario di vizi umani: avidità, pigrizia, lussuria, brutalità. Buñuel smantella senza pietà l'idillio della carità cristiana, mostrandone le derive e la vanità quando si scontra con la cruda realtà di un'umanità corrotta, incapace di elevarsi al di sopra delle proprie pulsioni primarie. Questo è il culmine del sarcasmo buñueliano, la sua risata amara di fronte all'ingenuità del bene assoluto.

Non sorprende che un film di tale calibro e audacia abbia suscitato molte polemiche, in particolare con il Vaticano, per la presunta irrisione della religione cattolica. La tensione culminò per una scena divenuta celeberrima, e considerata proditoriamente blasfema dai vertici ecclesiastici del tempo: quella che ritrae i mendicanti a gozzovigliare nella villa, ricalcata iconograficamente dal celeberrimo quadro di Leonardo da Vinci, "L'Ultima Cena". Buñuel non si limita a un semplice richiamo visivo; egli sovverte il sacro, lo dissacra con una lucidità brutale. Non è la semplice parodia ciò che rende la scena così potente, quanto la sua capacità di rivelare una verità scomoda: che la spiritualità, quando non è radicata in una comprensione profonda e disillusa della natura umana, rischia di crollare sotto il peso della sua stessa utopia. I mendicanti, trasformati in apostoli di un’umanità degradata, non si limitano a profanare il luogo, ma incarnano la vanità di ogni tentativo di redenzione superficiale. Il film fu premiato con la Palma d'Oro al Festival di Cannes del 1961, ma la Spagna franchista, inizialmente orgogliosa del riconoscimento internazionale di un suo regista esiliato, fu costretta a ritirare la pellicola dalla circolazione e il suo direttore generale per il cinema, José Muñoz Fontán, venne destituito per averne avallato la produzione. Un epilogo che ne consacrò l'aura di film maledetto e profetico, una testimonianza del genio ribelle di Buñuel.

Un film che porta in nuce il germe della lucida follia dinanzi alla sensualità più pura, una sensualità che Viridiana tenta di soffocare, ma che riaffiora con prepotenza attraverso le dinamiche con Don Jaime prima e con il cugino Jorge poi. Ed è proprio il triangolo finale, con Jorge, l'uomo pragmatico e disincantato, a suggerire una via d'uscita dall'impasse mistico di Viridiana: non più la redenzione divina o la carità inefficace, ma una disillusa accettazione della vita nella sua ambiguità. La sua trasformazione, da aspirante santa a complice di un banale gioco di carte, non è una caduta morale, ma forse una liberazione dalla prigione dell'ideale. Al contempo, la pellicola tenta di illustrare la nostra fragilità di fronte a Dio, o meglio, di fronte all'idea che ci facciamo di Dio e della sua volontà, un'idea che spesso non resiste all'urto con la realtà tangibile della carne e del peccato. Viridiana non offre risposte, ma pone interrogativi scomodi, invitando lo spettatore a confrontarsi con il proprio moralismo, con le proprie certezze, e con la scomoda verità che il sacro e il profano sono, in fondo, due facce della stessa, inafferrabile, medaglia umana. Un capolavoro che continua a brillare per la sua intelligenza corrosiva e la sua audacia senza tempo.

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