Vivere
1952
Vota questo film
Media: 0.00 / 5
(0 voti)
Regista
Spesso, quando si pensa ad Akira Kurosawa, la mente corre al fragore delle spade, all'epica dei samurai, alla polvere e al fango di battaglie monumentali. Eppure, il suo capolavoro più puro e forse più universale è un film di una quiete quasi assordante, un'opera che sostituisce la katana con una diagnosi di cancro allo stomaco e il campo di battaglia con i corridoi polverosi di un ufficio della burocrazia di Tokyo. Ikiru ("Vivere", 1952) è un film insolitamente intimista per Kurosawa, un ritratto straziante e umanissimo che si concentra su un grande personaggio, Kanji Watanabe, e sulla sua melanconica, tardiva visione del mondo una volta raggiunto il termine della sua vita. È un'opera che combatte la battaglia più grande di tutte: quella per dare un senso a un'esistenza prima che sia troppo tardi.
Ikiru può essere letto come il manifesto ontologico della poetica di Kurosawa, un film prezioso da centellinare perché contiene, in forma distillata, tutta la sua filosofia sull'essere umano. La sua grandezza risiede in una struttura narrativa audace e geniale. Per i primi due terzi, seguiamo la disperata odissea di Watanabe (un immenso Takashi Shimura, il cui volto è una maschera di tragedia e speranza), un burocrate che per trent'anni è stato una "mummia" vivente, timbrando carte e dicendo no ai cittadini. Quando scopre di avere solo pochi mesi di vita, il suo mondo crolla. Ma a due terzi del film, il protagonista muore. Kurosawa compie qui un gesto radicale: dedica l'ultima, potentissima parte del film alla veglia funebre di Watanabe. Attraverso i ricordi frammentati, ubriachi e spesso contraddittori dei suoi colleghi burocrati, cerchiamo di ricostruire il mistero della sua trasformazione finale. Il film diventa così un'indagine sulla memoria e sul significato di una vita, dimostrando che il valore di un'esistenza non risiede in come la si vive, ma in come viene ricordata e nell'impatto, anche piccolo, che ha sugli altri.
L'esistenzialismo di Kurosawa emerge come mezzo estetico di redenzione da un certo tipo di cinema che evidentemente gli stava stretto. Liberatosi dai codici del jidaigeki, il regista si immerge in una crisi profondamente moderna, che ha più a che fare con Sartre che con il Bushidō. Watanabe, gettato nel mondo con la consapevolezza della sua fine imminente, sperimenta le classiche fughe esistenziali. Prima il nichilismo edonista, in una notte dantesca passata tra locali e sale da pachinko, guidato da uno scrittore mefistofelico; poi il tentativo di assorbire la vitalità altrui, attraverso la sua fascinazione per una giovane e vivace collega, Toyo. Ma capisce che entrambe le strade sono un'illusione. La vera redenzione non può essere trovata all'esterno, ma deve essere costruita. La sua epifania è un atto di pura volontà: l'esistenza precede l'essenza. Decide di dare un senso alla sua vita compiendo un'unica, piccola, ostinata azione: lottare contro la sua stessa burocrazia per trasformare un'area inquinata in un parco giochi per bambini. Non è un gesto eroico su scala epica, ma è il suo capolavoro, l'atto che lo definisce e lo salva.
Il film, pur essendo profondamente giapponese nel suo ritratto della rigida burocrazia del dopoguerra—una metafora della paralisi spirituale di una nazione—è carico di un'universalità sconcertante, anche grazie ai suoi colti rimandi letterari. È impossibile non vedere nell'odissea di Watanabe un'eco della grande letteratura russa. La sua discesa agli inferi nella notte di Tokyo ha un sapore dostoevskiano, ma il parallelismo più potente e diretto è con La morte di Ivan Il'ič di Lev Tolstoj. Entrambe le opere raccontano la storia di un burocrate che ha vissuto una vita "artificiale", "non autentica", e che solo di fronte alla malattia e alla morte imminente si risveglia alla terribile consapevolezza di non aver mai veramente vissuto. La lotta di Watanabe per costruire il parco è il suo disperato tentativo di compiere quell'unica azione "autentica" che possa redimere un'intera esistenza di vuoto. Sebbene il cinema giapponese dell'epoca fosse popolato da altri giganti, Kurosawa qui si distingue. Mentre Ozu analizzava con gentile malinconia la lenta dissoluzione della famiglia tradizionale e Mizoguchi metteva in scena il destino tragico degli individui schiacciati dalle strutture sociali, Kurosawa infonde nella sua storia una scintilla di speranza attiva, un'affermazione potente della capacità dell'individuo di agire e di creare il proprio significato, anche all'interno del sistema più soffocante.
La scena finale è una delle immagini più iconiche e commoventi della storia del cinema. Watanabe, solo, di notte, nel parco che ha creato, si dondola lentamente su un'altalena mentre la neve cade, cantando a mezza voce una vecchia canzone malinconica, "Gondola no Uta". Non è l'immagine di una morte triste. È l'immagine di un trionfo. In quel momento, Watanabe è pienamente, totalmente, dolorosamente vivo. Ha trovato il suo posto nel mondo, ha compiuto la sua opera, e può andarsene in pace. Ikiru è un film che ogni essere umano dovrebbe vedere, un memento mori che ci ricorda non tanto che dobbiamo morire, ma che, proprio per questo, abbiamo il dovere e la possibilità di imparare a vivere.
Generi
Paese
Galleria







Featured Videos
Trailer
Commenti
Loading comments...