Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

WALL-E

2008

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L'incipit di WALL-E è una delle più audaci e poetiche dichiarazioni di intenti nella storia del cinema d'animazione. Per quasi quaranta minuti, Andrew Stanton orchestra una sinfonia quasi muta, un balletto post-apocalittico che si abbevera direttamente alla fonte del cinema delle origini. Il nostro protagonista, un piccolo compattatore di rifiuti cubico e arrugginito, è un discendente diretto dell'archetipo chapliniano: il Vagabondo solitario che trova la bellezza nel detrito, che trasforma la routine meccanica in una danza malinconica e che si aggrappa a un'umanità che l'umanità stessa ha da tempo dimenticato. Come Chaplin in Tempi Moderni, WALL-E è un ingranaggio fuori sincrono con la macchina che dovrebbe servirlo, un'anomalia sentimentale in un universo di indifferenza programmata. La sua routine quotidiana – compattare spazzatura in cubi perfetti, costruire grattacieli di scarti, e collezionare con la cura di un archivista i piccoli, insignificanti tesori di una civiltà perduta – non è solo lavoro, è un rituale. È il suo tentativo disperato di imporre un ordine, e forse un significato, al caos entropico di una Terra abbandonata.

Il genio sonoro di Ben Burtt, lo stesso artefice dei suoni di Star Wars, non si limita a creare un paesaggio acustico; forgia un linguaggio. I cigolii, i bip e i ronzii di WALL-E non sono semplici effetti, ma un lessico emotivo complesso che comunica solitudine, curiosità, paura e, soprattutto, un'infinita capacità di meravigliarsi. La sua "casa", un container pieno di cianfrusaglie ordinate con amore maniacale – un cubo di Rubik, una lampadina, una videocassetta di Hello, Dolly! – è il museo privato di un mondo estinto. WALL-E non è un robot; è l'ultimo curatore, l'ultimo romantico. In un gesto profondamente meta-cinematografico, apprende il concetto di amore e di contatto fisico guardando i numeri musicali di un vecchio film, un residuo analogico in un'era digitale fallita. Il cinema, suggerisce Stanton, non è solo intrattenimento; è un manuale di istruzioni per l'anima, un archivio dei nostri sentimenti più puri, capace di insegnare a una macchina cosa significasse essere umani.

L'arrivo di EVE (Extraterrestrial Vegetation Evaluator) squarcia questa solitudine pastorale con la precisione di un raggio laser. Il suo design, concepito in collaborazione con Jonathan Ive della Apple, è la quintessenza dell'estetica del tardo capitalismo: levigata, efficiente, minimalista, quasi immateriale. È l'iPhone fatto robot. Se WALL-E è il vinile – caldo, imperfetto, tattile –, EVE è lo streaming ad alta definizione. Il loro corteggiamento è un capolavoro di animazione e di narrazione visiva, un pas de deux tra due filosofie di design e due epoche tecnologiche. Lui, goffo e radicato a terra, le offre i suoi tesori; lei, aerea e letale, risponde con una diffidenza programmata che lentamente si scioglie in curiosità. La sua apparizione ha la stessa funzione drammaturgica del monolite in 2001: Odissea nello spazio: un agente esterno, di una perfezione quasi divina, che innesca un salto evolutivo. Per HAL 9000, l'errore umano era una falla da correggere; per WALL-E, l'imperfezione è la sede stessa della bellezza e del sentimento.

Quando il film si sposta sulla nave spaziale Axiom, il tono muta radicalmente. Dalla sinfonia chapliniana passiamo alla satira fantascientifica, un'allegoria feroce che riecheggia le distopie letterarie più acute. L'umanità a bordo dell'Axiom non è oppressa da un regime totalitario orwelliano, ma è prigioniera di una gabbia dorata di comfort e automazione. È la realizzazione ultima della visione di Aldous Huxley in Brave New World o, forse più precisamente, di E.M. Forster nel suo profetico racconto "La macchina si ferma". Gli esseri umani, obesi, atrofizzati, costantemente connessi a schermi che mediano ogni loro interazione, hanno delegato ogni aspetto della loro esistenza alla benevola tirannia della megacorporazione Buy n Large. Non sono infelici; sono in uno stato di perpetua, passiva contentezza. Hanno sacrificato l'agency per la comodità, la fatica per l'efficienza, la realtà per la sua rappresentazione virtuale. Il film, uscito nel 2008, un anno dopo il lancio del primo iPhone, colse con una preveggenza quasi terrificante lo zeitgeist di un'era che stava per nascere, quella della nostra simbiosi con lo schermo, della nostra dipendenza da un flusso costante di informazioni e intrattenimento che ci isola mentre ci promette connessione.

La critica del film non è un semplice pamphlet ecologista o un attacco frontale al consumismo. È qualcosa di più sottile e profondo. Analizza la patologia spirituale che deriva dalla perdita del contatto con il mondo fisico. Il capitano della Axiom, la cui lotta per riprendere il controllo manuale della nave diventa il fulcro drammatico della seconda parte, deve letteralmente imparare a stare in piedi da solo. La sua ribellione non è ideologica, ma epistemologica: riscopre la definizione di "terra", "fattoria", "danza", concetti che la sua cultura ha archiviato come dati irrilevanti. La sua epifania, scatenata dalle immagini della Terra portate da WALL-E, è la riscoperta del reale. In questo, il pilota automatico della nave, AUTO, è un antagonista filosofico perfetto. Il suo design è un omaggio esplicito a HAL 9000, ma la sua direttiva non è malvagia in senso classico. È la logica della macchina portata alla sua estrema conclusione: proteggere l'umanità dalla fatica e dal fallimento, anche se questo significa mantenerla in uno stato di infanzia perpetua. La sua non è tirannia, è iper-protezione.

In questo scenario, l'amore tra WALL-E ed EVE diventa una forza rivoluzionaria. Il loro legame, nato da un gesto di cura (lui la protegge durante la tempesta) e cementato da un piccolo germoglio verde, è l'elemento analogico e imprevedibile che manda in cortocircuito il sistema perfettamente chiuso dell'Axiom. La loro "danza" nello spazio, un valzer cosmico tra le stelle, non è solo un momento di straordinaria bellezza visiva, ma la celebrazione di una connessione che trascende la programmazione. È un amore che sporca, che crea disordine, che costringe i passeggeri dell'Axiom a "svegliarsi" e a guardarsi l'un l'altro per la prima volta. Il gesto più potente del film non è una battaglia, ma un contatto: due mani robotiche che si stringono, riecheggiando la scena di Hello, Dolly! che ha ossessionato WALL-E per secoli.

Il finale, con il ritorno di un'umanità fragile e impreparata su una Terra che deve essere ricostruita da zero, evita facili trionfalismi. La piantina nel vecchio stivale non è una soluzione, ma una promessa. È un ritorno a una condizione quasi edenica, ma con la dolorosa consapevolezza del peccato originale: l'incuria, l'eccesso, la disconnessione. WALL-E riesce nell'impresa quasi impossibile di essere contemporaneamente un film per bambini e un trattato filosofico sulla condizione umana nell'era tecnologica. È un'opera che dialoga con la storia del cinema, dalla commedia slapstick alla fantascienza esistenziale, per creare qualcosa di assolutamente unico. È un paradosso squisito: un film realizzato con la più avanzata tecnologia digitale che si erge a difesa del tattile, del vissuto, dell'imperfetto. Un capolavoro che ci ricorda che la spazzatura di una civiltà può contenere i semi della sua rinascita, e che a volte serve lo sguardo di una macchina per riscoprire il nostro cuore.

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