Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato
1971
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Regista
Un velo di technicolor saturo, quasi tossico, avvolge ogni fotogramma di Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato, un velo che promette meraviglia zuccherina e nasconde un cuore di cinismo nero come la liquirizia. Guardare l'opera di Mel Stuart nel 1971, anno in cui l'onda lunga della controcultura si stava infrangendo sulle spiagge del disincanto post-Woodstock, significava assistere a un'allucinazione collettiva, un musical per l'infanzia che fungeva da cavallo di Troia per un'inquietante parabola sulla natura umana. Non è un film per bambini; è un film sui bambini, o meglio, sulla corruzione dell'innocenza in un'era di consumismo nascente e gratificazione istantanea. È una fiaba dei fratelli Grimm filtrata attraverso la lente psichedelica di Ken Kesey e i suoi Merry Pranksters, un viaggio in barca lungo un fiume di cioccolato che si rivela essere una catabasi nelle profondità dell'animo umano.
Al centro di questo maelstrom dolciario si erge una delle figure più enigmatiche e complesse della storia del cinema: il Willy Wonka di Gene Wilder. Dimenticate la stravaganza quasi asettica delle successive incarnazioni. Il Wonka di Wilder è un'entità instabile, un trickster mitologico a metà tra il Pifferaio di Hamelin e un Prospero recluso nella sua isola-fabbrica, un dio minore che ha deciso di mettere alla prova la moralità di un'umanità che disprezza profondamente. Il suo ingresso in scena è un capolavoro di depistaggio semiotico: l'avanzata lenta e sofferente con il bastone, che culmina in un'imprevedibile capriola, non è una semplice gag. È la dichiarazione d'intenti di un personaggio che farà della performance e dell'inganno la sua unica, vera grammatica espressiva. Wilder gli presta uno sguardo che oscilla tra il calore di un nonno e la freddezza glaciale di uno psicopatico, una dizione che accarezza citazioni shakespeariane ("So shines a good deed in a weary world...") per poi esplodere in urla terrificanti. Non è un benevolo cioccolataio; è un arbitro sadico, un demiurgo che ha costruito un labirinto morale mascherato da parco giochi, dove ogni attrazione è un potenziale patibolo.
Il design della fabbrica, curato da Harper Goff (già mente dietro il Nautilus di 20.000 leghe sotto i mari), contribuisce in modo cruciale a questo senso di perturbante. Non è un luogo di pura gioia, ma uno spazio saturo e artificiale che evoca le tele metafisiche di De Chirico. Il giardino commestibile, con i suoi colori iperrealisti e le sue forme organiche ma innaturali, non è tanto un paradiso quanto una trappola edonistica. C'è qualcosa di fondamentalmente sbagliato, di quasi osceno, in un fiume di cioccolato in cui si può annegare, in una gomma da masticare che trasforma in un frutto grottesco, in una televisione che disintegra la materia. È il sogno del consumatore che si trasforma in incubo, la promessa di un'abbondanza infinita che rivela il suo prezzo: la perdita di sé. Ogni bambino, escluso il puro di cuore Charlie Bucket, incarna una delle nuove virtù capitalistiche trasformate in vizio capitale: la gola insaziabile di Augustus Gloop, l'arroganza viziata di Veruca Salt, l'ossessione competitiva di Violet Beauregarde, l'alienazione mediatica di Mike Teevee. Sono caricature, certo, ma caricature profetiche di un mondo a venire.
E poi, ci sono gli Oompa Loompa. Lungi dall'essere semplici aiutanti, essi rappresentano una delle invenzioni più audaci e inquietanti del film. Sono un coro greco in versione lillipuziana, esseri de-individualizzati con la pelle arancione e i capelli verdi che emergono dalle viscere della fabbrica per cantare epitaffi moraleggianti sulle vittime del sistema di Wonka. Le loro canzoni, scritte da Leslie Bricusse e Anthony Newley, sono orecchiabili ma sinistre, una sorta di memento mori in rima baciata che sottolinea la natura punitiva, e non salvifica, di quel luogo. La loro presenza solleva interrogativi che il film lascia volutamente irrisolti: sono schiavi, dipendenti, o una proiezione della coscienza colpevole di Wonka? La loro estetica, un bizzarro miscuglio di esotismo tribale e design da era spaziale, li colloca al di fuori di ogni logica riconoscibile, rendendoli ancora più perturbanti. Sono l'espressione di un ordine morale implacabile e alieno, il contrappunto brechtiano che ci ricorda costantemente che stiamo assistendo a una rappresentazione, a una severa lezione mascherata da intrattenimento.
La sequenza più emblematica di questo cortocircuito tra meraviglia e terrore è senza dubbio il viaggio in barca sul fiume di cioccolato. È qui che il film si spoglia di ogni pretesa di rassicurazione infantile per diventare un'esperienza sensoriale quasi avanguardistica. Le luci stroboscopiche, il montaggio febbrile, le immagini proiettate di insetti e teste decapitate, e soprattutto il monologo delirante di Wonka, recitato da Wilder con un'intensità crescente fino a raggiungere il puro urlo, trasformano una gita in un bad trip collettivo. "There's no knowing where we're rowing..." ("Non si sa dove stiamo remando...") canta con una follia negli occhi che gela il sangue. In quel momento, Wonka smette di essere una guida e diventa uno psicopompo, traghettando i suoi ospiti (e lo spettatore) attraverso un inferno dantesco in miniatura, un viaggio al termine della notte mascherato da attrazione di un parco a tema. È puro cinema del rischio, un momento di rottura radicale che eleva il film ben al di sopra del suo genere di appartenenza.
È interessante notare come il film si discosti dal romanzo di Roald Dahl, guadagnandosi il disappunto dell'autore stesso. La sceneggiatura, alla quale Dahl contribuì ma che fu poi pesantemente rimaneggiata, sposta il centro focale da Charlie a Wonka, trasformando una storia di meritocrazia e bontà premiata in un profondo studio del personaggio di un recluso geniale e misantropo. L'aggiunta dell'antagonista Slugworth, che si rivela essere un dipendente di Wonka sotto mentite spoglie, introduce un tema di paranoia e spionaggio industriale tipico della Guerra Fredda, ma soprattutto serve a orchestrare l'ultima, decisiva prova di lealtà per Charlie. La rabbia esplosiva di Wonka nell'ufficio finale, quando accusa Charlie di aver violato le regole e di non meritare nulla, non è solo un colpo di scena. È la crisi finale di un uomo che ha perso la fede nell'umanità e che, disperatamente, cerca una sola prova del contrario. La restituzione del Gobstopper da parte di Charlie non è un semplice gesto di onestà; è un atto di grazia che redime non solo il ragazzo, ma Wonka stesso, permettendogli finalmente di abdicare e di cedere il suo regno.
Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato è un'opera che resiste al tempo proprio perché non ha mai cercato di essere un semplice prodotto del suo tempo. È un artefatto culturale complesso, un musical che dialoga con la psichedelia, una satira sociale che anticipa le ossessioni della società dei consumi, e un racconto gotico travestito da fantasia per famiglie. La sua eredità non risiede nel cioccolato o nelle canzoni, ma nella sua coraggiosa esplorazione dell'oscurità che si annida dietro la facciata più dolce, nella sua comprensione che la vera magia non è creare caramelle che non si consumano mai, ma trovare un briciolo di sincerità in un mondo stanco e cinico. È un invito a guardare oltre la carta colorata, a scoprire che dietro ogni promessa di paradiso artificiale si cela un test, una sfida, e forse, solo forse, la possibilità di una redenzione.
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