Zabriskie Point
1970
Vota questo film
Media: 4.43 / 5
(7 voti)
Regista
Un film può essere un documento, un sogno, un pamphlet o un enigma. "Zabriskie Point" è tutte queste cose insieme, e forse nessuna di esse. È piuttosto un miraggio, la visione febbrile e iper-lucida che un grande maestro del modernismo europeo, Michelangelo Antonioni, ebbe dell'America del 1969, un continente che ai suoi occhi doveva apparire tanto alieno e affascinante quanto la Swinging London di "Blow-Up", ma infinitamente più vasto, più vuoto, più violento. È l'opera di un antropologo sbarcato su Marte con una cinepresa, intento a catalogare i rituali incomprensibili di una civiltà sull'orlo del collasso o di una sublime, catartica trasformazione.
Il fallimento commerciale e critico del film al momento della sua uscita è oggi un pezzo fondamentale della sua mitologia. L'America non si riconobbe in quello specchio deformante. La controcultura, che avrebbe dovuto esserne l'eroina, percepì la freddezza analitica di Antonioni come una forma di condiscendenza, un'appropriazione indebita del proprio fervore. L'establishment vide solo un pericoloso inno alla sovversione. Intrappolato in questo fuoco incrociato, "Zabriskie Point" divenne un oggetto filmico quasi radioattivo, troppo astratto per essere un manifesto politico e troppo politico per essere pura astrazione. Ma è proprio in questa terra di nessuno, in questo scarto tra intenzione e percezione, che risiede la sua inesauribile potenza. Antonioni non voleva filmare la rivoluzione; voleva filmare l'immagine della rivoluzione, la sua superficie, la sua semiotica.
La sequenza d'apertura è già un trattato di poetica. Un'assemblea studentesca, un coro di voci che si accavallano, slogan urlati, teorie smozzicate. Le parole hanno perso il loro potere di comunicare, sono diventate puro rumore, gesti sonori di un'urgenza che non riesce a farsi discorso. È la quintessenza dell'incomunicabilità antonioniana, traslata dal salotto borghese di "L'avventura" all'aula universitaria occupata. I due protagonisti, Mark e Daria, non sono personaggi nel senso tradizionale del termine. Sono piuttosto archetipi, ideogrammi ambulanti. Lui, il ribelle nichilista che crede solo nell'azione diretta, un fuggiasco la cui ribellione è tanto istintiva quanto, in fondo, infantile (rubare un aereo). Lei, l'anima più riflessiva, quasi una flâneuse del deserto, immersa in una sorta di limbo spirituale, in cerca di qualcosa che non sa definire. Il loro dialogo è scarno, quasi imbarazzato, come se entrambi sapessero che le parole sono inadeguate a descrivere il vuoto che li circonda e che si portano dentro. Non sono gli eroi loquaci e consapevoli di un film di Godard; sono figure silenziose e smarrite in un paesaggio che parla per loro.
E che paesaggio. L'America di Antonioni è una topografia dell'anima, una mappa a due poli. Da una parte, Los Angeles: un inferno di cemento, cartelloni pubblicitari, feticci del consumismo. La macchina da presa si sofferma con la precisione di un pittore iperrealista su queste superfici, su questi simboli di un benessere che è anche una prigione. Le pubblicità non sono solo sfondo, sono il vero linguaggio del luogo, un bombardamento costante di imperativi al possesso e al desiderio. È un mondo saturo di segni ma privo di significato, un'estetica che sembra anticipare le desolazioni letterarie di un Don DeLillo. Dall'altra parte, il deserto. La Death Valley. Un paesaggio pre-umano, o forse post-umano. Non è la frontiera romantica del western fordiano, terra di conquista e di speranza. È un pianeta alieno, uno spazio geologico indifferente alla storia, dove il tempo si misura in ere e non in minuti. È qui che il cinema di Antonioni si fa più radicale, quasi astratto, avvicinandosi alle coeve sperimentazioni della Land Art di un Robert Smithson.
In questo scenario lunare si consuma la sequenza più celebre e controversa del film: l'orgia di polvere. Dopo aver fatto l'amore, Daria immagina una moltitudine di coppie che si rotolano tra le dune di Zabriskie Point. Non è una scena erotica, ma una fantasia panica, panteistica. I corpi perdono la loro individualità, diventano parte del paesaggio, si fondono con la terra in un balletto pittorico e primordiale. È il sogno di una liberazione totale, di un ritorno a uno stato di natura che trascende la politica e la società. Antonioni non filma il sesso, ma l'idea del sesso come dissoluzione dell'Io, come fuga dalla prigione della coscienza individuale. Un'epifania visiva accompagnata dalle note psichedeliche e dilatate dei Pink Floyd, la cui musica non funge da semplice commento, ma da vera e propria architettura sonora che modella lo spazio e il tempo della visione.
Se l'orgia nel deserto è il sogno di una liberazione costruttiva, il finale è il suo esatto contrario: una liberazione attraverso la distruzione, una catarsi apocalittica che è tra le più potenti e memorabili dell'intera storia del cinema. Daria, appresa la notizia della morte di Mark, si ferma davanti alla villa modernista del suo capo, un tempio impeccabile del lusso e del capitalismo arroccato nel deserto. E immagina la sua esplosione. Antonioni non si accontenta di una singola detonazione. La filma da diciassette angolazioni diverse, la reitera, la dilata in un ralenti ipnotico e terrificante. È un'esecuzione estetica, un atto di terrorismo concettuale. E dopo la villa, tocca ai suoi contenuti: un frigorifero che vomita cibo, un televisore, dei vestiti, una libreria i cui libri si sfogliano nel vuoto prima di disintegrarsi. È il feticismo delle merci di Marx trasformato in un'opera d'arte pirotecnica, un ready-made duchampiano fatto esplodere.
Questa sequenza, musicata da una versione primordiale di "Careful with That Axe, Eugene" dei Pink Floyd, è il cuore filosofico del film. È la rabbia impotente che si trasfigura in visione artistica. La rivoluzione non avviene nelle strade, ma nella mente di Daria. È un'apocalisse interiore, l'unico atto sovversivo possibile quando l'azione politica si è rivelata un vicolo cieco. Vedere un pacco di Kellogg's Corn Flakes fluttuare in slow-motion contro il cielo azzurro del deserto, come un detrito spaziale dopo la fine del mondo, è un'immagine di una bellezza assurda e lancinante. È la Pop Art di Warhol che incontra il nichilismo cosmico, un ultimo, beffardo sberleffo alla civiltà dei consumi.
"Zabriskie Point" non è un film da "capire", ma da cui lasciarsi attraversare. È un poema visivo sulla bellezza e la vacuità, sul desiderio di fuga e sull'impossibilità di trovarla. Antonioni, con il suo sguardo da entomologo esistenziale, ha colto non tanto la realtà dell'America del '69, quanto la sua allucinazione collettiva, il suo essere un gigantesco set cinematografico in cui si recitava la tragedia del Sogno Americano. È un film imperfetto, forse, con dialoghi legnosi e attori a tratti inadeguati, ma le sue imperfezioni sono parte integrante della sua grandezza. Sono le crepe in un affresco magnifico, le cicatrici che testimoniano lo scontro titanico tra un autore e un mondo che non poteva comprendere fino in fondo, ma che ha saputo restituire in immagini di una potenza estetica folgorante e immortale. Un capolavoro nato da un fraintendimento, e proprio per questo, più vero del vero.
Attori Principali
Generi
Paesi
Galleria








Commenti
Loading comments...
