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Novecento

1976

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Novecento è un'opera lirica e contadina, un affresco smisurato e febbrile che tenta l'impossibile: racchiudere cinquant'anni di storia italiana, con le sue lotte, i suoi orrori e le sue utopie, in un racconto di oltre cinque ore. È un'opera-mondo, eccessiva, diseguale, a tratti ingenua, ma di una potenza visiva e di un'ambizione intellettuale così sconfinate da renderla un'esperienza indimenticabile. Un film che poteva nascere solo nel calderone politico e culturale dell'Italia degli anni '70, e che oggi ci parla con la forza di un poema epico.

La storia di Novecento si configura come una grandiosa metafora della Storia stessa, con la S maiuscola. Bertolucci adotta la struttura e l'ambizione dei grandi romanzi storici dell'Ottocento, da Guerra e Pace di Tolstoj a I Miserabili di Hugo. Come quei maestri, usa le vicende dei singoli individui come una lente attraverso cui osservare le maree impersonali che muovono le nazioni. Le analogie con certo tipo di cinema europeo, in particolare quello del suo maestro Luchino Visconti, sono evidenti ma anche fuorvianti. Se Il Gattopardo di Visconti raccontava la fine di un mondo, quello aristocratico, con una sensibilità crepuscolare e una malinconia quasi nostalgica, Bertolucci mette in scena non una transizione, ma uno scontro frontale. Il suo è un film che respira la dialettica marxista, una lotta di classe esplicita e appassionata. È l'opera di un figlio che ammira il padre Visconti, ma che ne radicalizza il discorso, spostando il baricentro emotivo e politico dalla villa del padrone alla corte dei contadini.

Questa lente di Bertolucci si manifesta attraverso una saga familiare che usa il paese come microcosmo per confezionare un messaggio universale. Tutto ha inizio in un'opulenta tenuta agricola dell'Emilia, il 27 gennaio 1901, giorno della morte di Giuseppe Verdi. Nello stesso giorno, nascono due bambini: Alfredo, figlio dei padroni Berlinghieri, e Olmo, figlio illegittimo dei contadini Dalcò. Le loro vite parallele ma inesorabilmente intrecciate diventeranno l'allegoria del ventesimo secolo italiano. Alfredo (interpretato da Robert De Niro) rappresenta la borghesia terriera, colta ma impotente, complice passiva del fascismo e incapace di agire. Olmo (un Gérard Depardieu che incarna la forza della terra) è il proletariato contadino, fiero, socialista, che prende coscienza di sé e lotta per la propria emancipazione. La loro amicizia, nata nell'infanzia e fatta di complicità e rivalità, è il legame complesso e contraddittorio tra le due classi, un legame che la Storia metterà a dura prova fino a spezzarlo, per poi forse ricomporlo in una forma nuova e incerta.

Ma il vero protagonista è il paesaggio. Bertolucci e il suo mago della fotografia, Vittorio Storaro, fanno della Bassa Padana non uno sfondo, ma un personaggio attivo, un'entità quasi mitologica. L'estetica di Bertolucci è sensuale, pittorica, operistica. La macchina da presa si muove con piani sequenza fluidi e maestosi, che abbracciano la terra e i corpi. Storaro dipinge con la luce, assegnando ai colori una funzione drammaturgica precisa: i toni caldi e dorati dell'estate e dell'autunno sono i colori della vita contadina, della passione, dell'utopia socialista. I bianchi accecanti e i blu gelidi dell'inverno sono i colori della morte, della repressione fascista, della sterilità borghese. La scelta di un cast internazionale stellare: De Niro, Depardieu, Burt Lancaster, Sterling Hayden, Donald Sutherland, calato in questo contesto rurale e fatto recitare accanto a contadini veri, crea un effetto straniante e potente, unendo la grandezza del mito hollywoodiano alla verità quasi neorealista della terra.

Capire perché Novecento è così importante significa anche conoscere la sua travagliata storia produttiva e distributiva. Fu una co-produzione internazionale colossale, un progetto di un'audacia quasi impensabile oggi. La versione originale del regista superava le cinque ore, e le battaglie con i produttori, specialmente con la Paramount per il mercato americano, per ridurre il film a una durata "commerciale" sono diventate leggenda. Questa lotta per l'integrità dell'opera è parte della sua stessa natura: un film che, come i suoi protagonisti contadini, ha dovuto combattere contro le logiche del capitale per poter esistere nella sua forma più pura e radicale. La sua uscita nel 1976, nel pieno degli Anni di Piombo, lo rese un evento politico. La sua rappresentazione della Liberazione non come un momento di riconciliazione nazionale, ma come una rivoluzione proletaria, con tanto di processo popolare al padrone, era una dichiarazione politica di una forza dirompente.

In questo affresco, la figura di Attila Mellanchini, il fattore fascista interpretato da un Donald Sutherland agghiacciante, diventa la personificazione del male. La sua violenza non è mai grandiosa o ideologica; è patetica, sessualmente frustrata, e si sfoga sui più deboli. La scena in cui uccide prima un gatto e poi un bambino non è gratuita, ma è una metafora illuminante e terribile. È la tesi di Bertolucci sulla natura del fascismo: una brutalità vigliacca che nasce dall'invidia sociale e dall'impotenza, e che trova la sua massima espressione nell'attacco alla vita innocente, alla bellezza e al futuro. Attila non è un superuomo nietzschiano, è un miserabile che, vestito di una camicia nera, si sente autorizzato a scatenare i suoi istinti più bassi. È la banalità del male in versione agraria. Novecento è un'opera smisurata, a volte ingenua nella sua fede politica, ma la sua ambizione, la sua bellezza visiva e la sua potenza emotiva ne fanno un'esperienza cinematografica unica. È il tentativo, titanico e forse impossibile, di mettere un intero secolo sullo schermo, e in questo suo fallimento glorioso risiede la sua eterna, indiscutibile grandezza.

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