Un Posto al Sole
1951
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Regista
Tratto dal celebre romanzo di Theodore Dreiser “An American Tragedy”, la cui densità naturalistica e la puntuale analisi delle pulsioni sociali americane sembravano quasi refrattarie alla trasposizione cinematografica, Un Posto al Sole riesce non solo ad eguagliare il suo augusto predecessore in denuncia sociale, lirismo emozionale e introspezione morale, ma anzi a riplasmare la materia in una forma filmica che ne esalta la drammaticità più intima. George Stevens, con una maestria che trascende la semplice pedissequa riproduzione, si appropria del fatalismo deterministico di Dreiser per infondergli un respiro più viscerale, quasi operistico, trasformando il caso di cronaca nera in una parabola universale sulla fragilità umana e le chimere dell’ambizione.
Il protagonista, George Eastman – un Montgomery Clift dalla bellezza dolente e tormentata, quasi un archetipo dell'inquietudine giovanile post-bellica – è un giovane squattrinato, erede di un cognome importante ma privo dei mezzi per sostenere tale blasone, che viene sedotto non solo dalla radiosa Angela Vickers, interpretata da una Elizabeth Taylor all’apice della sua ieratica bellezza e magnetismo, ma da un intero mondo di sfarzo, opulenza e promesse scintillanti. Questo nuovo universo gli si spalanca davanti come un miraggio accecante, infiammando la sua già latente ambizione di scalatore sociale, un desiderio impellente di affrancarsi dalla mediocrità e di conquistare, appunto, il proprio “posto al sole” nel firmamento di una società rigidamente classista ma perennemente sedotta dal mito dell’autoaffermazione.
Ma ecco irrompere, come un'ombra ineludibile dal passato, la cruda realtà incarnata da Alice Tripp, la fragile e disperata operaia interpretata con straziante vulnerabilità da Shelley Winters. La sua ex fidanzata, con l’annuncio di una gravidanza inattesa, gli intima di sposarla, ponendo George di fronte a un bivio morale insostenibile: il baratro del suo passato o il paradiso promesso dal suo futuro.
Il giovane, incalzato dalla disperazione e dalla prospettiva di perdere tutto, durante una fatidica gita in barca sul lago, medita seriamente di uccidere la ragazza. È una sequenza di tensione palpabile, un tour de force di regia e recitazione, dove il silenzio assordante e lo sguardo torvo di Clift comunicano più di mille dialoghi. Si noti, qui, il potente e affascinante parallelismo con il capolavoro espressionista di F.W. Murnau, Aurora (Sunrise: A Song of Two Humans): in entrambi i film, il lago diventa uno specchio delle turbe interiori, un luogo di tentazione e di riflessione sul peccato capitale, e la macchina da presa si fa occhio della coscienza, immergendo lo spettatore nella psiche tormentata del protagonista. Entrambi i registi evitano la semplificazione morale, esplorando la complessità del desiderio omicida piuttosto che la sua mera esecuzione. Eppure, proprio quando il baratro sembra inevitabile, George all’ultimo istante si trattiene, il suo istinto omicida sembra disinnescato dalla codardia o da un residuo di decenza.
Ma il fato, o forse una forma di giustizia cieca e beffarda, si abbatte su di loro: la ragazza, per un malaugurato incidente che lascia aperta una perturbante ambiguità – fu fatalità, esitazione, o una spinta involontaria frutto di tensione e disperazione? – cade fuori bordo e annega nelle acque gelide, lasciando George solo con il suo tormento e un destino che si preannuncia atroce.
Durante il processo che segue, Stevens abbandona il lirismo idilliaco dei primi atti per un'atmosfera claustrofobica e oppressiva, tipica del noir giudiziario. Un implacabile pubblico ministero, con la sua retorica incalzante e la sua sete di giustizia esemplare, tenterà di incastrare l’uomo, costruendo un caso basato sulle apparenze e sulle mancate ammissioni di George, portando la tragedia personale su un piano di dramma sociale e mediatico. La sequenza del processo è un'accusa al sistema, alla sua rigidità e alla sua incapacità di penetrare la complessità delle motivazioni umane, un labirinto legale dove la verità processuale si scontra con quella emotiva e psicologica.
Un’opera emotivamente possente, pervasa da una costante tensione psicologica che non si allenta mai, nemmeno nelle sequenze più apparentemente serene, e impreziosita da un Montgomery Clift che qui non è solo all’apice della sua carriera artistica, ma incarna con rara intensità il travaglio interiore di un’anima smarrita. La sua interpretazione è un capolavoro di sottrazione e di espressività silente, capace di comunicare l'ambiguità morale e la vulnerabilità di George con un semplice sguardo, un tic nervoso, una postura curva sotto il peso di un fardello insopportabile. La sua chimica sullo schermo con Elizabeth Taylor è elettrica, rendendo il loro idillio amoroso un vortice di desiderio e dannazione, un sogno proibito la cui attrazione è palpabile, quasi dolorosa.
Sebbene Stevens sia più interessato alle implicazioni morali e alla risonanza universale della storia in sé, piuttosto che a stagliare ritratti minuziosi e onnicomprensivi di ogni singolo personaggio coinvolto in essa (in questo, va detto, discostandosi parzialmente da Dreiser, che nella sua opera monumentale campì con chirurgica efficacia il profilo psicologico e sociologico di ogni attore della tragedia), ne esce un’opera di rara profondità, che seppe impressionare inevitabilmente il pubblico del tempo e lasciare un segno indelebile. Celebri furono le critiche alla scena del bacio tra Clift e Taylor, giudicata “oscenamente lunga” per i canoni puritani e per le restrizioni del Codice Hays dell'epoca. Un bacio che, lungi dall'essere una mera effusione romantica, divenne un vero e proprio manifesto cinematografico: Stevens utilizzò dissolvenze incrociate e primi piani estremi per estenderlo oltre i limiti convenzionali, trasformandolo in una metafora della fusione totale, del desiderio travolgente che annulla il mondo esterno e condensa l'intera traiettoria fatale della passione di George. Quella scena, così audace nella sua durata e intensità psicologica, fu un trionfo di regia e di montaggio che, pur senza infrangere letteralmente le regole della censura, ne sfidava lo spirito, comunicando una sensualità e un trasporto emotivo che andavano ben oltre la semplice rappresentazione, perseguendo di fatto l’obiettivo del regista: immergere lo spettatore non solo nella trama, ma nel vortice emotivo e morale che ne è il vero cuore pulsante, rendendo Un Posto al Sole un classico intramontabile, ancora oggi capace di interrogarci sulle tentazioni del successo e le vertigini del desiderio.
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