Aftersun
2022
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Regista
Sezionare un ricordo è un atto di vivisezione spettrale. Si incide un passato che non può più sanguinare, si cercano organi vitali in un corpo fatto di ectoplasma, si tenta di diagnosticare una malinconia le cui cause sono ormai sepolte sotto strati di tempo. "Aftersun" di Charlotte Wells non è un film sulla memoria; è una seduta spiritica cinematografica, un tentativo disperato e sublime di evocare un fantasma – quello di un padre – non per interrogarlo, ma semplicemente per vederlo ancora una volta, per decifrare le crepe nella sua maschera di normalità attraverso il nastro sgranato di una videocamera MiniDV.
L’intero apparato formale del film è una dichiarazione d’intenti di una lucidità disarmante. La Sophie adulta, figura quasi interamente fuori campo di cui percepiamo solo la coscienza osservante, non sta semplicemente ricordando la sua ultima vacanza in Turchia col giovane padre Calum. Sta riesaminando le prove. I filmati amatoriali, con i loro colori slavati e la grana grossolana tipica degli anni ’90, non sono un vezzo nostalgico, ma reperti archeologici. Wells, con un'intelligenza registica che la proietta istantaneamente nel novero dei talenti più puri del cinema contemporaneo, li tratta come il nastro di Zapruder di un'anima: li rallenta, li ferma, li scruta, cercando in un gesto fuori fuoco o in un sorriso troppo tirato l'indizio che all'epoca, a undici anni, le era sfuggito. In questo, "Aftersun" si apparenta meno al cinema della nostalgia e più a quello dell'indagine postuma, dialogando idealmente con il Chris Marker di "Sans Soleil", dove l'immagine è una traccia, un geroglifico emotivo da decifrare. La differenza cruciale è che, mentre Marker cercava il funzionamento della memoria collettiva, Wells cerca la chiave per comprendere un singolo, inaccessibile universo interiore.
Paul Mescal offre un'interpretazione che è un capolavoro di sottrazione. Il suo Calum non è un padre manifestamente tormentato. È affettuoso, protettivo, a tratti goffamente giovanile, un trentenne che cerca di essere un genitore responsabile mentre combatte demoni che noi, come la piccola Sophie, possiamo solo intravedere. Sono lampi, fratture nell'ordinario: una danza solitaria e disperata sulla soglia della camera, un pianto silenzioso sul letto che crede non visto, uno sguardo perso nel vuoto mentre la figlia dorme. Mescal non recita la depressione, ne incarna l'aura. La sua fisicità, spesso ripresa in posture che suggeriscono una lotta interiore – il Tai Chi sul balcone come tentativo di imporsi un equilibrio, il braccio ingessato come simbolo di una ferita più profonda e invisibile – è un testo a sé stante. Accanto a lui, la debuttante Frankie Corio è una rivelazione. La sua performance non è quella di una bambina prodigio che "recita", ma quella di un essere umano in formazione che osserva. Il suo sguardo è il nostro, un misto di adorazione filiale e di una nascente, inquieta consapevolezza che l'adulto che ha di fronte è un enigma tanto quanto lo è lei stessa.
La struttura narrativa del film è ellittica, quasi proustiana nel suo procedere per associazioni, per madeleine visive e sonore. Un'immagine del presente (il tappeto che Calum ha comprato in Turchia) innesca il tuffo nel passato. Ma a differenza di Proust, il tempo ritrovato di "Aftersun" non porta alla consolazione della comprensione, ma alla perenne frustrazione dell'incompletezza. È un'opera che condivide la poetica dei non detti con i racconti di Raymond Carver, dove il peso maggiore risiede negli spazi bianchi tra le parole, nei silenzi tra padre e figlia a bordo piscina. La località turistica turca, un "non-luogo" per eccellenza, diventa il palcoscenico perfetto per questo dramma intimo: uno spazio liminale, sospeso, dove le normali strutture della vita quotidiana sono assenti e le fragilità possono emergere più facilmente, come il sale che affiora sulla pelle dopo un bagno in mare.
Wells inserisce la sua storia in un contesto storico-culturale preciso, quello della fine degli anni ’90, senza mai renderlo un feticcio. La colonna sonora, che spazia dai Blur ai Catatonia fino alla hit estiva "Macarena", non è un semplice juke-box nostalgico. È il tessuto sonoro di un'epoca, l'ultimo vagito di un certo ottimismo pre-millennio, pre-11 settembre. Il brano chiave, "Under Pressure" di Queen e David Bowie, viene utilizzato in una sequenza che è il cuore pulsante e straziante del film. In una discoteca, le luci stroboscopiche frammentano i corpi e i volti, e in questi flash intermittenti la Sophie adulta immagina di vedere suo padre, intrappolato in una danza eterna e disperata. È qui che lo scarto diegetico tra passato e presente collassa. La memoria non è più un filmato da rivedere, ma uno spazio psicologico da abitare, un rave febbrile e oscuro in cui la figlia cerca di raggiungere e salvare un padre che non può più essere salvato. L'uso del testo della canzone ("This is our last dance") è di una potenza emotiva quasi insostenibile, un esempio di come il cinema possa trascendere la letteralità per raggiungere una verità puramente poetica ed emotiva.
Questo spazio stroboscopico è la metafora perfetta del film stesso: una visione frammentata, a tratti accecante e a tratti buia, di una persona amata. "Aftersun" ci dice che non possiamo mai conoscere completamente un altro essere umano, specialmente un genitore visto attraverso gli occhi di un bambino. Possiamo solo raccogliere i frammenti, i Polaroid che non sono mai stati sviluppati, i silenzi, le canzoni cantate a squarciagola in un pullman turistico. Il film è un atto d'amore radicale proprio perché accetta questa impossibilità. Sophie non cerca di "risolvere" il mistero di suo padre, né Wells offre facili spiegazioni psicologiche per il suo dolore. L'eziologia della sua sofferenza rimane fuori campo, come un sole troppo forte per essere guardato direttamente. Ciò che resta è l'impronta che ha lasciato, il calore residuo sulla pelle dopo che il sole è tramontato – l'aftersun, appunto.
Il finale, con quel saluto attraverso il vetro di un gate aeroportuale che si trasforma in un addio definitivo, è di una compostezza che lacera il cuore. È la chiusura del cerchio, l'accettazione che quel corridoio buio intravisto nella discoteca è la destinazione finale di Calum, un luogo dove Sophie non potrà mai seguirlo. Ciò che le resta non è una storia completa, con un inizio, uno svolgimento e una fine, ma una collezione di istanti preziosi e dolorosi. "Aftersun" è un esordio miracoloso, un film che si insinua sotto la pelle e vi rimane, come un'eco, come il fantasma di una melodia. È un'elegia silenziosa che ridefinisce il racconto di formazione, trasformandolo in un'opera di archeologia emotiva, dimostrando che i film più potenti non sono quelli che ci danno risposte, ma quelli che ci insegnano a convivere con la bellezza e il dolore delle nostre domande irrisolte.
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