Alice nelle città
1974
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Regista
Un viaggio non inizia quasi mai con una destinazione. Spesso, prende le mosse da un vuoto, da un'assenza che si fa talmente insopportabile da costringere al movimento. Philip Winter, il giornalista tedesco protagonista errante di "Alice nelle città", non sta cercando l'America; sta fuggendo da una Germania interiore, da un'incapacità di vedere, di sentire, di scrivere. È l'archetipo dell'intellettuale europeo del dopoguerra, sradicato e ironicamente colonizzato dalla cultura che si era proposto di documentare. Wim Wenders, con la grazia di un sismografo che registra tremori dell'anima, non ci consegna un road movie nel senso kerouackiano del termine, ma il suo esatto opposto: un immobility movie, un'odissea della stasi esistenziale mascherata da spostamento geografico.
Siamo nel 1974. Il Nuovo Cinema Tedesco è nel suo pieno, febbrile apogeo, un movimento di figli che fanno i conti con il silenzio dei padri e con l'ingombrante fratello maggiore d'oltreoceano. Wenders, Fassbinder, Herzog: ognuno a suo modo, cercano di forgiare un nuovo linguaggio visivo per una nazione la cui identità è un palinsesto di traumi e di sogni importati. L'America di "Alice nelle città" non è la terra della libertà epica di John Ford, ma un deserto di significanti. Motel anonimi, stazioni di servizio, autostrade infinite che promettono ogni luogo e non portano da nessuna parte. È l'America filtrata da una coscienza europea, un paesaggio che assomiglia più a una tela di Edward Hopper che a una frontiera da conquistare. Philip Winter (un magnifico, laconico Rüdiger Vogler, alter ego Wendersiano per eccellenza) è intrappolato in questo paesaggio. Il suo incarico è scrivere un articolo sull'America, ma le parole non arrivano. L'unica cosa che riesce a produrre sono Polaroid.
Qui Wenders orchestra il primo, geniale cortocircuito meta-testuale. La Polaroid è l'immagine istantanea, priva di negativo, senza memoria, senza profondità. È la perfetta metafora della percezione di Philip: una collezione di superfici che non riesce a penetrare, un accumulo di "fatti" che non si coagulano mai in una "verità". Egli è un fotografo che ha smesso di vedere e uno scrittore che ha smesso di sentire. La sua crisi non è solo creativa, è ontologica. In un dialogo memorabile, dice: "Quando guidi a lungo, perdi ogni senso del tempo e dello spazio... Le immagini che vedi non significano più nulla". È il collasso del rapporto tra l'osservatore e il mondo, un'afasia semantica che è il vero cuore nero del film. Wenders sta filmando la crisi della rappresentazione in un'epoca in cui le immagini cominciano a proliferare in modo incontrollato, svuotandosi di senso. È un film profetico, che anticipa di decenni la nostra attuale saturazione iconografica.
Poi, come un sassolino nell'ingranaggio bloccato della sua esistenza, arriva Alice (una sorprendente Yella Rottländer). Una bambina di nove anni, pragmatica e disincantata, abbandonata temporaneamente dalla madre in un aeroporto di New York. L'incontro è casuale, quasi beckettiano nella sua assurdità. Philip, l'uomo che fugge da ogni legame, si ritrova a essere il custode di questa piccola creatura. La loro dinamica è un capolavoro di sottrazione. Lontani anni luce dalla picaresca complicità di Paper Moon di Bogdanovich, uscito appena l'anno prima, o dalla sentimentalità chapliniana de Il monello, il legame tra Philip e Alice è forgiato sulla base di una comune condizione di spaesamento. Non sono un padre e una figlia surrogati; sono due naufraghi che si aggrappano alla stessa zattera in un oceano di alienazione.
Il ritorno in Europa non è un ritorno a casa. È l'inizio di un'altra peregrinazione, ancora più disperata perché ambientata in una patria che non è più riconoscibile. La seconda parte del film, ambientata in Germania, è una sorta di The Searchers alla rovescia. Non si cerca una persona rapita per riportarla alla civiltà, ma si cerca una casa, un'origine, rappresentata dalla nonna di Alice, di cui la bambina ricorda solo una fotografia sfocata. La loro ricerca attraverso le città della Ruhr è un viaggio in un non-luogo. Wuppertal, con la sua fantascientifica Schwebebahn (la monorotaia sospesa), diventa il simbolo di una nazione sospesa, slegata dalle proprie radici, che si muove in una direzione incerta al di sopra delle rovine – fisiche e morali – del proprio passato. La Germania di Wenders non è meno estraniante dell'America; è solo un'estraneità più intima, più dolorosa.
È Alice, con la sua logica infantile e la sua memoria frammentaria, a guidare la ricerca. Lei è l'unica ad avere un obiettivo, per quanto vago. Philip è il suo esecutore, il suo autista, il suo portafoglio. Questo rovesciamento di ruoli è fondamentale: è la bambina a costringere l'adulto ad agire, a uscire dal suo torpore solipsistico. Lei lo costringe a interagire con la realtà, a chiedere indicazioni, a confrontarsi con il fallimento. Paradossalmente, prendendosi cura di Alice, Philip inizia a prendersi cura di se stesso, a riattivare quelle connessioni emotive e percettive che credeva atrofizzate. La macchina fotografica Polaroid, che in America era uno scudo tra lui e il mondo, in Germania diventa uno strumento di indagine, un tentativo di far coincidere l'immagine (la foto della casa della nonna) con la realtà.
Il film, girato in un bianco e nero granuloso e malinconico da Robby Müller, che qui inaugura il suo sodalizio con Wenders, ha il respiro di un'improvvisazione jazz. La narrazione è episodica, erratica, piena di tempi morti che sono in realtà carichi di significato. Wenders non ha paura del silenzio, delle attese, dei momenti in cui "non succede niente". Perché è proprio in questi interstizi che la vita accade. È nel gesto di Philip che compra un fumetto ad Alice, nel loro bisticcio su chi deve dormire vicino alla finestra, nella loro visita a una piscina pubblica, che si costruisce il senso del film. La colonna sonora, affidata alla band tedesca Can, aggiunge un ulteriore strato di ipnotica e crepuscolare inquietudine, un tappeto sonoro che è l'equivalente acustico del paesaggio visivo.
Il finale è di una struggente e perfetta ambiguità. La nonna viene trovata, ma quasi per caso, grazie a un annuncio della polizia. Non c'è un grande climax emotivo, nessuna catarsi hollywoodiana. Philip e Alice si separano alla stazione, con una promessa di rivedersi che suona tanto sincera quanto improbabile. Ma qualcosa è cambiato. Nell'ultima inquadratura, vediamo Philip su un treno, che finalmente tira fuori il suo taccuino e inizia a scrivere. La storia che non riusciva a trovare in America, l'ha trovata in questo viaggio assurdo e senza meta. Non ha trovato l'America, non ha trovato "casa", ma ha trovato una storia da raccontare. Ha trasformato l'esperienza in narrazione. Il dispositivo metanarrativo si chiude con una potenza disarmante: il film che abbiamo appena visto è, forse, la storia che Philip sta finalmente riuscendo a scrivere. Il viaggio non era verso la casa della nonna di Alice; era verso la prima pagina del suo taccuino.
"Alice nelle città" è più di un film; è uno stato d'animo, una riflessione filosofica sull'identità, la memoria e il potere curativo delle storie. È il punto zero del cinema di Wenders, il manifesto di una poetica che esplorerà per tutta la sua carriera: la ricerca di un'immagine autentica in un mondo di riproduzioni, e la ricerca di un luogo da chiamare casa in un'epoca di sradicamento globale. È un'opera che, a quasi cinquant'anni di distanza, non ha perso un'oncia della sua potenza, parlando con una lucidità quasi dolorosa alla nostra condizione di nomadi perpetui, armati di smartphone che scattano miliardi di Polaroid digitali nella speranza, quasi sempre vana, di catturare qualcosa che assomigli alla realtà.
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