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Il Gusto del Sakè

1962

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Nel suo ultimo film Ozu riprende la storia di Tarda Primavera e la ridipinge con i colori di una "melancholia" che qui, nel crepuscolo della sua opera, assume i contorni definitivi di un commiato, non solo dal suo pubblico, ma da un intero mondo che scivola via. Se il capolavoro del 1949 era intriso di un dolore quasi acerbo per l'abbandono del nido, in Il Gusto del Sakè (titolo originale assai più evocativo, Sanma no Aji, il sapore del pesce saury autunnale, che evoca l'effimero e il ciclico), la tristezza si fa più matura, distillata, permeata da quell'ineluttabile mono no aware, la malinconica consapevolezza dell'impermanenza delle cose.

La vicenda ci introduce a Hirayama Shūhei, un vedovo che vive nella zona industriale di Kawasaki con la figlia ventiquattrenne, Michiko. Un uomo immerso in una routine consolatoria, tra le pareti domestiche e le serate tra vecchi amici, compagni di bevute e di rimpianti. Ma il tempo in Ozu non è mai statico; è un fiume lento e inesorabile. Hirayama si rende conto che a Michiko occorre lasciare il nido e costruirsi una vita lontano da lui, un imperativo dettato non da egoismo, ma da un profondo senso del dovere paterno, che lo obbliga a rinunciare alla sua fonte di conforto quotidiano. A dispetto del suo rigore morale – una maschera di dignità e auto-sacrificio – tenterà con ogni mezzo, spesso indiretto e sottilmente doloroso, di convincere la ragazza a lasciarlo. Non vi è in Ozu il dramma gridato, ma il lento stillicidio di decisioni necessarie, accettate con la grazia silenziosa di chi comprende l'ordine delle cose.

Il passato diviene terra di confine brulicante di mostri della memoria: il fantasma della moglie perduta, la solitudine che attende, il ricordo di un professore, ora un relitto umano, che ha mantenuto con sé la figlia finché non è divenuta anziana e indesiderabile. Questo spettro del futuro, cupo e ammonitore, è ciò che spinge Hirayama all'azione. Il futuro, per contro, si presenta come un’opzione incerta e fumosa verso cui protendere arditamente la mano, un atto di coraggio necessario non tanto per sé quanto per la felicità altrui. Una speranza di continuità – più che di rinascita, nel senso occidentale del termine – aleggia su tutto, con un disperato afflato lirico che ne rinsalda il respiro e lo spinge silenziosamente verso il nostro cuore. Ozu non promette un'alba radiosa, ma l'accettazione della notte che segue il giorno, un ciclo eterno di arrivi e partenze.

La poetica delle piccole cose, una sorta di elegia che sale potente dalla quotidianità, affascina irrimediabilmente questo regista e ne costella tutta l’opera. È nel rituale del sakè condiviso, nelle passeggiate lungo strade secondarie, nei dialoghi scarni eppure densissimi, nelle "pillow shots" – quelle inquadrature di oggetti inanimati o paesaggi urbani che fungono da intermezzo meditativo, quasi una pausa di respiro tra una scena e l'altra – che la sua arte si rivela nella sua pienezza. La macchina da presa, fissa e posizionata ad altezza tatami, ci pone a un livello di osservazione intimo, quasi fossimo partecipi della scena, mai invasivi ma sempre presenti. È una scelta stilistica che riflette una filosofia: la vita non è fatta di eventi eccezionali, ma della somma di infiniti attimi ordinari. Persino l'uso del colore, inaugurato da Ozu nella sua fase finale, non è mai sgargiante o simbolico in senso occidentale; piuttosto, accentua la bellezza dimessa della realtà, i rossi vivaci delle scatole di sakè o dei vestiti che punteggiano l'uniformità della vita.

I personaggi, interpretati da attori che hanno attraversato l'intera filmografia del Maestro, come l'immancabile Chishū Ryū nel ruolo del padre, non sono solo figure narrative, ma archetipi che si confrontano con le trasformazioni del Giappone del dopoguerra. Il conflitto tra tradizione e modernità, tra dovere e desiderio individuale, è sotteso a ogni sguardo, a ogni silenzio. Le serate al bar con gli amici, reminiscenti di una gioventù perduta e di ideali svaniti, sono momenti di catarsi e di amara riflessione, dove il sakè non è solo un rito, ma un anestetico per l'anima, un velo pietoso sulla solitudine imminente.

Il Gusto del Sakè non è solo il suo ultimo film, ma un lungo viaggio d’addio per il Maestro, un lungo sommesso canto poetico che lascia in guisa di testamento. Morirà poco più di un anno dopo la sua uscita, il giorno del suo sessantesimo compleanno. È un'opera che condensa e sublima le sue ossessioni tematiche, la sua inconfondibile grammatica cinematografica, il suo sguardo compassionevole ma inflessibile sulla condizione umana. È un dono prezioso da custodire con cura, un distillato di saggezza e malinconia che ci ricorda la bellezza effimera e la dignità della vita nella sua quotidianità più schietta. Ozu si conferma, con questo capolavoro conclusivo, un gigante tra i giganti della Settima Arte, un poeta del silenzio e dell'umano sentire che, come il sapore persistente del sakè, lascia un'eco indelebile nell'anima.

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