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Anatomia di un rapimento

1963

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Anatomia di un rapimento (Tengoku to Jigoku – Paradiso e Inferno) è un saggio filosofico mascherato da police procedural, un'opera così brutalmente divisa nella sua struttura da costringere lo spettatore a un vero e proprio sdoppiamento della prospettiva. Akira Kurosawa abbandona qui i campi di battaglia del jidaigeki per orchestrare una guerra diversa, una guerra combattuta in un unico salotto borghese e, successivamente, nei gironi infernali di una metropoli moderna.

Il film è una scultura in due blocchi. La prima ora è un Kammerspiel che Ibsen o Strindberg avrebbero applaudito. Siamo "in alto" (Tengoku), nella villa-fortezza di Kingo Gondo (Toshiro Mifune, in una delle sue interpretazioni più straordinarie e controllate, un vulcano in giacca e cravatta). Kurosawa sfrutta il formato Tohoscope (il Cinemascope giapponese) non per la vastità, ma per l'oppressione. Il salotto di Gondo è un'arena orizzontale, un limbo climatizzato (simbolo di status supremo) che sovrasta la "città bassa", l'inferno (Jigoku) che bolle di calore e risentimento. La mise-en-scène è spietata: i personaggi sono intrappolati dalle linee nette dell'arredamento modernista, le tende sono confini morali, ogni movimento è un'accusa.

È qui che Kurosawa orchestra il suo dilemma morale, preso di peso dal romanzo King's Ransom di Ed McBain (dell'87º distretto) e trasceso all'istante. Gondo, un industriale che ha sacrificato tutto per preparare un colpo finanziario e prendere il controllo della sua stessa azienda, riceve la telefonata: suo figlio è stato rapito. Il riscatto è astronomico, una cifra che lo manderà in rovina. Poi, lo schiaffo: il figlio rientra in casa. Il rapitore ha commesso un errore. Ha preso il figlio dell'autista.

È un colpo di genio narrativo. Il dilemma non è più "salvare il proprio figlio". Il dilemma è: "Rovineresti la tua intera esistenza per salvare il figlio di un tuo dipendente?". Kurosawa trasforma un thriller in un referendum sul capitalismo, sull'umanesimo e sulla responsabilità sociale. Gondo non è un eroe; è un capitalista spietato che sta per compiere un'acquisizione ostile. Mifune è magnifico nel mostrare la paralisi dell'uomo che vede la sua etica rivoltarglisi contro. La sua lotta non è contro il rapitore; è contro la sua stessa natura, contro il suo conto in banca, contro i banchieri che lo assediano e la moglie che lo implora. La prima parte del film è un capolavoro di tensione statica, dove la vera azione è il collasso morale di un uomo sotto il microscopio.

E poi, dopo quasi un'ora di agonia claustrofobica, Kurosawa preme il grilletto. Gondo decide. Paga. E il film esplode.

Lasciamo la villa, il "Paradiso", e scendiamo. La seconda metà di Anatomia di un rapimento è, senza mezzi termini, l'atto di nascita del police procedural moderno. Ha inventato un genere. Zodiac di Fincher, Se7en, l'intera opera di Michael Mann: sono tutti figli di questo film. Kurosawa, il maestro dell'azione cinetica, scatena la sua macchina da presa. La sequenza del pagamento del riscatto sul treno ad alta velocità (lo Shinkansen, simbolo del miracolo economico giapponese) è un saggio di logistica cinematografica, una sinfonia di movimento, tempismo e tensione che lascia senza fiato. È qui che il film ci regala uno dei suoi tocchi più iconici: la richiesta del rapitore di tingere il denaro, che produce una singola, spettrale nuvola di fumo rosa che si leva dall'inceneritore del treno. In un film in bianco e nero, quell'unico elemento di colore (originariamente tinto a mano sulla pellicola) è uno squarcio poetico, il segnale visivo che il denaro "puro" di Gondo è stato contaminato, è diventato il fumo dell'inferno.

Da questo momento, Gondo scompare (diventa un eroe pubblico, ma un uomo finito) e il film cambia protagonista, agganciandosi al collettivo della polizia, guidato dall'implacabile ispettore Tokura (Tatsuya Nakadai). La caccia all'uomo non è eroica; è metodica, faticosa, un lavoro di squadra. Kurosawa ci immerge in un mondo che la sua macchina da presa non aveva mai esplorato: la Yokohama del dopoguerra, l'inferno che Gondo vedeva solo dalla sua finestra.

È un paesaggio urbano di una disperazione palpabile. Non è il Giappone feudale; è il Giappone del boom economico, con le sue cicatrici ancora fresche. Kurosawa ci trascina nei bassifondi, nei locali jazz fumosi, e in una sequenza di un vicolo di spacciatori che è puro cinema d'avanguardia. La scena della "strada della droga" è un'allucinazione: Kurosawa utilizza una pellicola solarizzata (o un effetto simile) e un sound design distorto per simulare l'esperienza dei tossicodipendenti, trasformando il vicolo in un limbo spettrale, un vero e proprio Jigoku dantesco. È un pezzo di cinema sperimentale inserito in un thriller commerciale, una dimostrazione di forza che solo un "Imperatore" poteva permettersi.

La caccia al rapitore, l'interno medico Takeuchi Ginjiro (un esordio agghiacciante di Tsutomu Yamazaki), rivela la vera tesi del film. Il crimine non è un atto di avidità; è un atto di risentimento sociale. Takeuchi non è un mostro; è l'ombra di Gondo. È il prodotto di una società che crea divari così estremi. Dalla sua stanza squallida e rovente, poteva guardare in alto e vedere la villa climatizzata di Gondo. Il rapimento non era per il denaro; era per punire il paradiso. È la stessa logica che decenni dopo animerà il capolavoro coreano Parasite.

Il finale è una delle conclusioni più nichiliste e potenti della storia del cinema. Non c'è un inseguimento, non c'è una sparatoria. C'è solo una stanza in un carcere. Gondo, che ha perso la sua azienda ma ha salvato la sua anima (e ora lavora per la ditta di scarpe che ha fondato, ma come dipendente), si trova di fronte a Takeuchi, condannato a morte. Sono separati da un vetro. E qui, Kurosawa realizza il suo capolavoro visivo e tematico: la macchina da presa si posiziona in modo che, nel riflesso del vetro, i volti dei due uomini si fondono.

"Paradiso" e "Inferno" non sono più separati dalla geografia; sono sovrapposti, indistinguibili. Gondo è Takeuchi. Takeuchi è Gondo. Sono due facce della stessa medaglia capitalista, un uomo che è riuscito a salire e uno che è stato schiacciato. La confessione finale di Takeuchi è un'esplosione di terrore, di invidia, di disperazione esistenziale. Il suo urlo finale, che infrange (metaforicamente) il vetro e la compostezza del film, è un grido che rimbomba oltre i titoli di coda. Kurosawa non ci offre catarsi. Ci offre uno specchio. E ci costringe a guardare.

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