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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Arsenico e vecchi merletti

1944

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Immaginate un quadro di Norman Rockwell, una di quelle istantanee di rassicurante e zuccherina normalità americana, e poi immaginate che i fratelli Marx, armati di secchi di vernice nera e bisturi, si divertano a vandalizzarlo in preda a un raptus dadaista. Il risultato di questo assalto iconoclasta all'immaginario collettivo somiglierebbe molto ad Arsenico e vecchi merletti, la più anomala, scatenata e deliziosamente macabra creatura mai emersa dalla fucina di Frank Capra. Sì, proprio lui, il cantore dell'uomo comune, l'architetto del "Capra-corn", colui che ha edificato monumenti all'ottimismo come La vita è meravigliosa e Mr. Smith va a Washington. Qui, Capra prende la sua America, quella delle verande immacolate e delle torte di mele, e la fa accomodare su una sedia elettrica per una seduta di terapia shock, regalandoci una delle commedie nere più perfette e funeree della storia del cinema.

Il film, girato nel 1941 ma trattenuto nei forzieri della Warner Bros. fino al 1944 per non bruciare la gallina dalle uova d’oro che era l'omonima pièce teatrale di Joseph Kesselring a Broadway, è un congegno a orologeria di rara precisione. La sua genialità risiede in un cortocircuito semantico e tonale che percorre ogni singola inquadratura. Tutto, nell'abitazione delle sorelle Brewster a Brooklyn, trasuda rispettabilità vittoriana: i centrini ricamati, il servizio da tè, le buone maniere sussurrate. Eppure, è proprio in questo santuario della normalità borghese che si annida una follia tanto serafica quanto letale. Le zie Abby e Martha non sono semplici zitelle amabili; sono angeli della morte che, per un malinteso senso di carità cristiana, "aiutano" anziani signori soli a trovare la pace eterna con un cocktail di vino di sambuco, arsenico, stricnina e "un pizzico di cianuro".

La casa Brewster diventa così un microcosmo gotico degno di Edgar Allan Poe, se solo Poe avesse scritto le sue storie dopo una sbronza di gas esilarante. La cantina, dove il nipote Teddy (convinto di essere Theodore Roosevelt) scava senza sosta il "Canale di Panama" per seppellire le vittime della "febbre gialla", è una discesa letterale e metaforica negli inferi perturbanti della psiche familiare. La claustrofobia dell'unità di luogo e di tempo, retaggio dell'origine teatrale, non è un limite ma un acceleratore di particelle comiche. Capra trasforma il salotto borghese in un reattore nucleare di nevrosi, dove ogni entrata e ogni uscita dalla scena innesca una nuova, imprevedibile fissione di caos.

Al centro di questo manicomio domestico si agita Mortimer Brewster, interpretato da un Cary Grant che offre una delle performance più coraggiose e discusse della sua carriera. Lontano anni luce dalla sua consueta e levigata nonchalance, il Grant di questo film è un sismografo impazzito che registra ogni scossa dell'assurdo. Le sue reazioni sono esagerate, i suoi occhi paiono schizzare dalle orbite, il suo corpo si contorce in una pantomima di puro panico. Grant stesso, a posteriori, criticò la sua interpretazione definendola eccessiva. Si sbagliava. Il suo "overacting" è in realtà una scelta stilistica geniale: Mortimer è il nostro surrogato, l'unico brandello di razionalità (peraltro, precaria) gettato in un universo che ha abolito le leggi della logica. La sua performance non è sopra le righe; è l'unica riga possibile quando il pentagramma della realtà è andato in frantumi. Attraverso la sua incredulità crescente, noi spettatori misuriamo la vertiginosa devianza della situazione. Egli è l'uomo di teatro, il critico drammatico che detesta la finzione, scaraventato di peso nella più incredibile delle farse, costretto a diventare attore e regista di un dramma che non ha scritto.

Il film opera a un livello metatestuale squisitamente nerd. L'arrivo del fratello reietto, Jonathan Brewster, è un colpo da maestro. Il suo volto, goffamente ricucito dal chirurgo alcolizzato Dottor Einstein (un Peter Lorre che sembra evaso da un film di Fritz Lang), assomiglia sinistramente a quello di Boris Karloff. Il fatto che a Broadway il ruolo di Jonathan fosse interpretato proprio da Boris Karloff crea un gioco di specchi vertiginoso, un ammiccamento cinefilo che frantuma la quarta parete. Arsenico e vecchi merletti non è solo una commedia degli orrori; è una commedia sui meccanismi dell'orrore. Jonathan è il Male archetipico, quello da film della Universal, che torna a casa e scopre, con suo sommo disappunto, di essere stato battuto sul campo del delitto dalle sue dolci, dilettantesche zie. La sua minaccia tangibile, quasi caricaturale, impallidisce di fronte alla placida, incomprensibile mostruosità della normalità.

È qui che Capra sovverte sé stesso e il Sogno Americano. La famiglia, nucleo fondante della sua poetica, si rivela un covo di pazzia ereditaria. Il pericolo non viene dall'esterno – dal cinismo della politica o dalla spietatezza del capitale – ma dall'interno, dal salotto di casa, dal gesto amorevole di offrire un bicchiere di vino. Le zie Brewster, interpretate con sublime e agghiacciante candore da Josephine Hull e Jean Adair (entrambe provenienti dal cast originale di Broadway), incarnano una forma di Male tanto più spaventosa perché inconsapevole, ammantato di buone intenzioni. Il loro pragmatismo omicida è una versione deviata e iperbolica della carità puritana, un'estrema conseguenza dell'etica del prendersi cura del prossimo. Questo scarto tra intenzione e azione, tra l'apparenza e la sostanza, è il motore di una comicità che lascia un retrogusto amaro, quasi filosofico, che anticipa di un decennio il Teatro dell'Assurdo di Ionesco.

Contestualizzare il film è fondamentale. Realizzato mentre il mondo sprofondava nella follia della Seconda Guerra Mondiale, Arsenico e vecchi merletti offre una forma di catarsi unica. La pazzia globale, incomprensibile e terrificante, viene addomesticata, rinchiusa tra le pareti di una casa di Brooklyn e resa esilarante. L'orrore diventa farsa, la morte una gag ricorrente. In un'epoca che vedeva il trionfo della violenza di stato, il film propone una violenza privata, quasi artigianale, e ne dimostra l'intrinseca assurdità. È un esorcismo collettivo attraverso la risata, un modo per guardare in faccia l'abisso e scoprirlo comicamente arredato con mobili Chippendale.

La sceneggiatura dei fratelli Epstein, già artefici del miracolo di Casablanca, è un meccanismo svizzero che non perde un colpo, un dialogo percussivo che costruisce un crescendo di panico e complicazioni con la precisione di una fuga di Bach. La regia di Capra, apparentemente invisibile e funzionale, è in realtà un capolavoro di controllo tonale. Non cede mai alla tentazione di sottolineare la gag o di strizzare l'occhio allo spettatore. Filma l'inconcepibile con la stessa pacatezza con cui avrebbe filmato una riunione di condominio, e proprio questa impassibilità registica rende il tutto esponenzialmente più divertente e inquietante.

Arsenico e vecchi merletti rimane una vetta insuperata di umorismo nero, un'opera che danza con grazia funebre sul confine sottilissimo che separa la sanità mentale dalla follia, la carità dall'omicidio, la commedia dalla tragedia. È il ritratto di una famiglia americana che, nel tentativo di essere eccezionalmente buona, è diventata eccezionalmente letale. Un'allegoria spietata e irresistibile che ci ricorda come, a volte, la cantina più buia non sia quella sotto le scale, ma quella nascosta dietro il sorriso più rassicurante e un centrino perfettamente inamidato. Un capolavoro che non invecchia, proprio come il vino di sambuco delle zie Brewster. Con la differenza che questo, per fortuna, si può gustare senza effetti collaterali. O quasi.

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