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Banditi a Orgosolo

1961

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Un cinema di pietra, vento e silenzio. Un cinema che sembra scolpito direttamente nella roccia millenaria della Barbagia, invece che impresso su pellicola. Vittorio De Seta, con Banditi a Orgosolo, non si limita a proseguire la lezione neorealista; la porta in un territorio altro, arcaico e primordiale, dove il dramma sociale si dissolve in una tragedia di statura classica, quasi presocratica. Se il neorealismo di De Sica e Rossellini era la cronaca di un'umanità ferita nelle macerie della Storia recente, quello di De Seta è un'immersione antropologica in una Storia immobile, un tempo mitico che si scontra violentemente con l'incomprensibile modernità dello Stato.

De Seta, che giunge al suo primo lungometraggio dopo la folgorante stagione dei cortometraggi documentari del "Mondo perduto", non abbandona affatto il suo sguardo etnografico. Al contrario, lo eleva a strumento di finzione potentissimo. Non c'è traccia di artificio nel suo Orgosolo. I volti, le mani, i gesti dei suoi protagonisti sono quelli veri dei pastori sardi. Michele, il protagonista interpretato dal pastore Michele Cossu, non recita: esiste, respira, soffre davanti alla macchina da presa con una verità che l'Actor's Studio non potrebbe mai neanche sognare di replicare. È la stessa operazione, per certi versi, che Robert Bresson compirà con i suoi "modelli", ma se Bresson cerca un'astrazione spirituale, una trascendenza dell'anima, De Seta cerca un'immanenza tellurica, il radicamento dell'uomo alla sua terra, al suo destino.

La trama è di una semplicità disarmante, la stessa semplicità che governa le parabole e i miti. Michele, un pastore che vive in simbiosi con il suo gregge, unica fonte di sostentamento e identità, viene ingiustamente coinvolto in un caso di abigeato e nell'omicidio di un carabiniere. La sua innocenza è irrilevante. Per la Legge, un'entità astratta e lontana quanto un dio omerico, egli è già colpevole in virtù del luogo in cui vive e del mestiere che fa. Inizia così la sua fuga disperata sui monti impervi del Supramonte, un labirinto di calcare e macchia mediterranea che da rifugio si trasforma in prigione a cielo aperto. Questa fuga non è un'azione, ma una reazione; non è una scelta, ma una condanna. È qui che il film trascende il resoconto sociologico sul banditismo sardo per diventare una riflessione universale sulla giustizia e sul determinismo.

In questo, Banditi a Orgosolo è il fratello aspro e rurale de Ladri di biciclette. Come Antonio Ricci, anche Michele è un uomo onesto spinto ai margini dalla spietata logica di un sistema che non lo comprende né lo protegge. Ma se la disperazione di Ricci si consuma nel grigiore anonimo della metropoli romana, quella di Michele si svolge in un paesaggio che è esso stesso un protagonista, un antagonista primordiale. Il Supramonte di De Seta non è una cartolina turistica; è un'entità viva, ostile, che esige un tributo di sudore e sangue. La fotografia di Vittorio De Seta (sì, fu anche operatore di sé stesso) è un capolavoro di chiaroscuri caravaggeschi, dove i volti segnati dal sole e dalla fatica emergono dal buio come sculture viventi e il paesaggio, spoglio e accecante, assume una dimensione metafisica, quasi da western ontologico.

Ecco, il western. L'analogia non è peregrina, anzi, è essenziale per decifrare il codice del film. Banditi a Orgosolo è un anti-western, o forse il western più puro e tragico che sia mai stato girato. Michele è un cowboy senza frontiera, un pioniere di un mondo che sta scomparendo. Il suo gregge è la sua mandria, la sua unica ricchezza. La legge che lo insegue non è quella dello sceriffo che porta la civiltà, ma una forza aliena che impone un ordine incomprensibile. La caccia all'uomo sui monti sardi ha la stessa epica disperata di una fuga nei canyon di John Ford, ma è spogliata di ogni romanticismo. Non c'è un eroe solitario che sceglie il proprio destino; c'è un uomo braccato che vede il suo destino sgretolarsi sotto i suoi piedi, pecora dopo pecora. La scena straziante in cui il gregge, stremato, precipita nel dirupo non è solo la perdita del capitale economico di Michele; è la sua morte simbolica, la perdita della sua identità di pastore, la cancellazione del suo posto nel mondo.

La struttura narrativa del film ricalca quella della tragedia greca. C'è un prologo di quiete pastorale, un'hamartia (la colpa tragica) che non appartiene al protagonista ma che si abbatte su di lui come un fato ineluttabile, una peripeteia (il rovesciamento della sorte) che è la fuga stessa, e una catastrofe finale che non porta a nessuna catarsi. L'agnizione, la presa di coscienza, per Michele non è la scoperta di una verità nascosta, ma l'accettazione di una menzogna imposta. Nel finale, derubato di tutto, persino della sua innocenza, Michele si unisce ai banditi. Non è una scelta di ribellione, non è l'abbraccio di un'ideologia romantica alla Robin Hood. È l'unica, terribile logica conseguenza. È la resa all'etichetta che la società gli ha cucito addosso. Diventa ciò di cui è stato accusato. Il ciclo dei vinti di Giovanni Verga trova qui la sua più cruda e cinematografica incarnazione. Michele, come 'Ntoni Malavoglia, è espulso dal suo mondo arcaico e non trova posto in quello nuovo.

Il sonoro del film è un altro elemento di genio. Il dialogo è ridotto all'osso, scarno, essenziale. A parlare sono i suoni della natura: il vento che sferza le rocce, il belato ossessivo delle pecore, il respiro affannoso degli uomini in fuga, il rumore dei passi sulla pietra. È un linguaggio pre-verbale, un commento sonoro che ci ancora alla dimensione fisica, quasi animale, della lotta per la sopravvivenza. De Seta ci costringe a sentire la fatica, la sete, il freddo. L'odissea di Michele è una via crucis laica, un calvario fisico che si fa specchio di una devastazione interiore.

Banditi a Orgosolo è un'opera che sta su un crinale. Da un lato, è il culmine di una certa tendenza documentaristica del neorealismo; dall'altro, la trascende, aprendo a un cinema più astratto, più mitico. È un film che dialoga a distanza con il cinema di un Flaherty (L'uomo di Aran), per la sua capacità di trasformare la cronaca etnografica in epica, e anticipa la fisicità e la ricerca di un "cinema di poesia" che sarà di Pasolini. La sua imparzialità è la sua forza: De Seta non giudica, non idealizza i banditi né condanna lo Stato. Mette in scena, con la precisione di un entomologo e l'anima di un poeta, la meccanica di una tragedia in cui le colpe individuali svaniscono di fronte a un conflitto insanabile tra due mondi, due codici, due tempi storici. È un film su come si fabbrica un "mostro", su come un uomo innocente possa essere costretto a incarnare lo stereotipo che lo opprime. E in questo, la sua lezione, a sessant'anni di distanza, risuona con una potenza formidabile e terribilmente attuale. Un monolite nero e bianco, duro e abbagliante, inamovibile nel canone del grande cinema mondiale.

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