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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Barbarossa

1965

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L'ambizione di un kolossal è una forma di hybris cinematografica. Si manifesta nel desiderio di piegare la Storia, con la sua caotica e irriducibile complessità, alla volontà di una narrazione coerente, di un affresco che possa, in due o tre ore, non solo raccontare un'epoca ma forgiarne il mito per gli spettatori del presente. Quando questa hybris incontra il talento, otteniamo un Lawrence d'Arabia o un Andrej Rublëv. Quando incontra la sincera foga populista, un Braveheart. Quando, invece, si sposa con un'agenda politica talmente esplicita da diventare didascalia, il risultato è un oggetto filmico come Barbarossa di Renzo Martinelli. Un'opera che, nel tentativo di scolpire un epos fondativo dalle cronache del XII secolo, finisce per consegnarci un simulacro, un golem cinematografico le cui giunture d'argilla sono fin troppo visibili sotto la cotta di maglia.

Il film si propone come la cronaca della lotta dei comuni della Lega Lombarda contro l'imperatore Federico Barbarossa, culminata nella leggendaria battaglia di Legnano del 1176. Al centro della vicenda, un giovane milanese di nome Alberto da Giussano, figura la cui esistenza storica è più che dubbia, elevato qui al rango di eroe eponimo, catalizzatore della resistenza e incarnazione stessa dello spirito di libertà padano. Di fronte a lui, un Barbarossa interpretato da Rutger Hauer, che porta in dote il carisma glaciale dei suoi ruoli più iconici, da Blade Runner a The Hitcher, ma che viene imbrigliato in una caratterizzazione monolitica, quasi da villain di un fumetto d'antan. Il loro scontro non è il conflitto tra due visioni del mondo, tra l'universalismo imperiale e il particolarismo comunale; è una lotta manichea tra il Bene (l'operoso, onesto, autoctono Lombardo) e il Male (l'oppressore straniero, arrogante e assetato di potere).

Questa semplificazione è la cifra stilistica e concettuale dell'intera opera. Se Braveheart di Mel Gibson, suo ovvio e ingombrante nume tutelare, era un urlo ferino intriso di fango e sangue, una ballata romantica e brutale sulla libertà, Barbarossa è un comizio in costume. La necessità di forgiare un mito immacolato, funzionale a una precisa narrazione contemporanea al tempo della sua produzione, prosciuga ogni ambiguità dai personaggi e ogni sfumatura dalla Storia. Alberto da Giussano non è un uomo con dubbi, paure o difetti; è una statua in movimento, un manifesto programmatico che cavalca per le pianure lombarde declamando principi di autodeterminazione. Le sue parole non sembrano nascere da un'urgenza interiore, ma da un copione scritto con in mente il manuale del perfetto militante. È un peccato, perché l'idea di un eroe popolare, un "faber" che si fa condottiero, possiede un potenziale archetipico potentissimo, che affonda le radici nel mito di Cincinnato come in quello di Garibaldi. Ma qui, il personaggio è talmente idealizzato da risultare inerte, un'icona senza pathos.

Visivamente, il film non lesina sullo sfarzo. La produzione, sostenuta da finanziamenti imponenti e controversi, mette in scena una ricostruzione opulenta. I costumi sono dettagliati, le scenografie imponenti, e le scene di massa tentano di evocare la grandiosità degli affreschi di Paolo Uccello. Eppure, anche qui, qualcosa non funziona. La fotografia, spesso patinata e innaturale, conferisce all'insieme un'aria da fiction televisiva di lusso, piuttosto che da epica cinematografica. Le battaglie, pur affollate di comparse, mancano della fisicità viscerale e della coreografia del terrore che hanno reso memorabili quelle di un Ran di Kurosawa o de Il Signore degli Anelli di Peter Jackson. Gli effetti digitali, in particolare, tradiscono un'estetica datata, creando una frattura straniante tra gli elementi reali e quelli aggiunti in post-produzione, che trasforma la piana di Legnano in un paesaggio da videogioco di inizio millennio. L'impressione generale è quella di un gigantesco evento di Live Action Role-Playing, meticolosamente allestito ma privo dell'anima e della polvere della Storia.

È nel confronto con altri tentativi di narrare il Medioevo che i limiti di Barbarossa diventano ancora più evidenti. Si pensi a Il settimo sigillo di Bergman, dove il ritorno del cavaliere dalle Crociate diventa un'indagine metafisica sulla fede e sulla morte. O a L'armata Brancaleone di Monicelli, che del Medioevo ha saputo cogliere il lato grottesco, picaresco e profondamente umano, usando un grammelot inventato per restituirne la distanza culturale e la vitalità plebea. Persino un'opera imperfetta come Le Crociate di Ridley Scott riusciva a interrogarsi sulla complessità del dialogo interreligioso e sulla follia del fanatismo. Barbarossa, al contrario, rifugge da ogni complessità. Il suo Medioevo è un palcoscenico per un dramma contemporaneo, un pretesto per parlare dell'oggi usando le armature di ieri. Non c'è alcun tentativo di penetrare la mentalità dell'uomo del XII secolo; i personaggi pensano e parlano come uomini del XXI travestiti, il che li rende non universali, ma semplicemente anacronistici.

L'operazione culturale che sottende il film è, in un certo senso, più affascinante del film stesso. In un'epoca di post-ideologie e narrazioni frammentate, il tentativo di creare un "mito di fondazione" a tavolino è un atto di audacia quasi futurista. C'è un'eco, perversamente, delle avanguardie del primo Novecento nel voler costruire un'arte che sia al contempo pedagogica e celebrativa, che serva a plasmare un'identità collettiva. Ma se il Futurismo voleva bruciare i musei, Barbarossa sembra volerli imbalsamare, creando un'agiografia posticcia che non ha la forza sovversiva dell'avanguardia né la profondità del mito autentico. Il mito, per essere tale, deve emergere da un humus culturale, deve essere ambiguo, polisemico, capace di parlare a generazioni diverse. Un mito fabbricato, con tesi e antitesi già definite, non è un mito: è propaganda. E la propaganda, artisticamente, è quasi sempre sterile.

Rutger Hauer, in questo contesto, è una figura quasi tragica. Il suo Barbarossa ha lampi di grandezza, momenti in cui lo sguardo dell'attore lascia trapelare un mondo di stanchezza imperiale, di consapevolezza del proprio ruolo storico. Ma è costretto a recitare battute che lo riducono a un tiranno da operetta, privandolo della statura di uno dei più grandi e complessi sovrani del Medioevo. È come chiedere a un violino Stradivari di suonare una suoneria polifonica. La sua presenza scenica è l'unica cosa che àncora il film a una parvenza di cinema "vero", un fantasma di un'altra opera, più stratificata e potente, che sarebbe potuta esistere in un universo parallelo.

In definitiva, Barbarossa è un reperto cinematografico di straordinario interesse, ma non per le ragioni auspicate dai suoi creatori. Non è un capolavoro che consacra un epos nazionale, ma un monumento al fallimento dell'arte quando si fa ancella di un'ideologia. È un film che sogna di essere la Chanson de Roland del popolo lombardo ma finisce per avere la profondità di un volantino elettorale. Lo si guarda con la stessa curiosità con cui si osserverebbe un fossile anomalo: non per la sua bellezza, ma per la storia che racconta sulla sua stessa, singolare e malinconica, estinzione. Un kolossal nato già rovinoso, non per mancanza di mezzi, ma per un eccesso di certezze. E il cinema, come la Storia, raramente prospera sulle certezze.

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