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Becket e il suo Re

1964

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Basterebbe scorrere la lista degli attori protagonisti di questo sontuoso dramma storico per intuire la portata di questo film: John Gielgud, Peter O’Toole, Richard Burton, Gino Cervi, Paolo Stoppa. Una costellazione di giganti, ognuno a suo modo un titano del palcoscenico e dello schermo, la cui sola presenza garantiva una profondità e una risonanza drammatica rara. Peter O'Toole, con la sua effervescente e magnetica irruenza, incarna un Enrico II di una giovinezza bruciante, tormentato da un potere che, pur desiderato, si rivela un fardello pesante sulla sua anima ribelle. Accanto a lui, Richard Burton cesella un Thomas Becket che è un vero tour de force di trasformazione interiore: dal cinico edonista e compagno di bagordi del Re, emerge lentamente la figura ieratica, quasi ascetica, del Primate d’Inghilterra, la cui fede (o forse una nuova, più elevata forma di ambizione) si consolida in un’incrollabile rettitudine morale. Il contrasto tra le loro performance – l’esplosiva energia di O’Toole e la granitica gravitas di Burton – genera una dialettica attoriale di rara intensità, un vero e proprio duello psicologico che eleva il film ben oltre il mero dramma storico. E poi il tocco di classe di Gielgud, la sua voce vellutata e il suo portamento aristocratico che conferiscono autorevolezza e saggezza alla figura del Papa, mentre i nostri Gino Cervi e Paolo Stoppa, pilastri del cinema italiano, aggiungono una dimensione più terrena, quasi farsesca, ai prelati di corte, creando un controcanto sottile e ben calibrato alla solennità britannica.

Inoltre si aggiunga il talento di un regista passato troppo a lungo sotto silenzio e impolverato da una coltre di oblio che non intacca minimamente il valore della sua arte: Peter Glenville. La sua regia, spesso sottovalutata, qui si rivela di una precisione chirurgica e di un’ampiezza visiva mozzafiato. Glenville, pur avendo diretto opere meno memorabili, in "Becket" dimostra una padronanza eccezionale del mezzo cinematografico, bilanciando il grandioso affresco storico con un'intima e penetrante analisi psicologica dei personaggi. La sua capacità di orchestrare scene di massa e di focalizzarsi su dettagli rivelatori, spesso attraverso primi piani eloquenti, è degna dei maestri del genere epico, ma con una sensibilità drammatica che lo eleva al di sopra dei semplici narratori di gesta.

Tratto dal romanzo di Jean Anouilh – o meglio, dalla sua pièce teatrale "Becket ou l'Honneur de Dieu", del 1959, che già era un capolavoro di scavo psicologico e filosofico – e riscritto con amore filologico da Edward Anhalt (il cui lavoro gli valse l’Oscar), narra delle vicende di Enrico II, il quale nel 1154, appena incoronato, chiama alla sua corte l’amico Thomas Becket nominandolo prima Cancelliere personale e in seguito Arcivescovo di Canterbury. Anhalt, con maestria rara, non si limita a trasporre il testo teatrale, ma lo espande con un senso cinematografico acuto, conservando la brillantezza dei dialoghi di Anouilh – intrisi di arguzia, cinismo e profonde riflessioni sull'onore, sul potere e sull'identità – e al contempo aprendo la narrazione a scenari di una sontuosità visiva che solo il grande schermo può offrire. L'opera di Anouilh, già di per sé un'esplorazione brillante del dilemma esistenziale e della trasformazione personale, trova nel copione di Anhalt un degno erede, capace di tradurre la verve intellettuale del dramma in un'epica di vasta portata, pur mantenendo intatto il nucleo della contesa spirituale e politica.

Il lento degrado del rapporto di amicizia tra i due, minato dalle spinte indipendentiste della Chiesa rispetto alla Corona, è al centro della focale del regista che ne documenta implacabilmente la tragica genesi. Questa non è una semplice ricostruzione storica; è un'anatomia della perdita, un affresco sulla corruzione di un'amicizia che, da complice e spensierata, si trasforma in un duello implacabile tra le forze del potere temporale e quelle della fede ineffabile. Il film, in questo senso, è un archetipo narrativo, una sorta di "bromance" ante litteram che sfocia in tragedia, un tema che risuona con altre grandi opere cinematografiche e letterarie, da "Amadeus" per la dinamica di genio e invidia, o persino certi drammi shakespeariani sulla perdita della fiducia e l'ineluttabilità del destino. La metamorfosi di Becket, da voluttuoso compagno di feste a intransigente difensore della Chiesa, non è dipinta come una mera convenienza politica o una trovata narrativa, bensì come un'autentica conversione interiore, un percorso spirituale che lo conduce all’estremo sacrificio, alla santità. Enrico II, d’altro canto, resta intrappolato nella sua umanità irruente e vendicativa, incapace di comprendere la nuova, quasi mistica, vocazione dell'amico, vedendola come un tradimento personale e un affronto al suo potere divino. Il conflitto tra le due figure diventa così una metafora universale della perenne tensione tra lo Stato e la Chiesa, tra il potere terreno e l'autorità spirituale, una lotta che ha plasmato la storia d'Occidente per secoli.

Un’opera superbamente interpretata e sublimemente girata, "Becket" è un film che continua a brillare per la sua rara combinazione di grandezza spettacolare e profondità intellettuale. La cinematografia, con le sue ampie inquadrature Panavision, cattura la magnificenza delle corti e la solennità delle cattedrali con una ricchezza di dettagli che trasporta lo spettatore in un Medioevo vivido e credibile. I costumi, le scenografie, la colonna sonora di Laurence Rosenthal (nominata all'Oscar) lavorano in sinergia per creare un'atmosfera immersiva, contribuendo a quel senso di sontuosità già evocato. Ma al di là della sua opulenza visiva, è la forza del dramma umano, la complessità delle relazioni, e il dibattito intramontabile tra onore, lealtà e fede che elevano "Becket" a un livello superiore, rendendolo non solo un monumento cinematografico, ma anche una profonda meditazione sulla natura del potere e dell'anima umana. Un capolavoro che merita di essere riscoperto, celebrato e meditato con la stessa intensità con cui fu concepito.

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