Bellissima
1952
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Regista
L'ambizione materna possiede una natura famelica, quasi vampirica. Si nutre del potenziale inespresso del genitore e lo proietta, trasfigurato e ingigantito, sulla prole, un fragile altare su cui sacrificare il futuro in nome di un passato mai realizzato. Pochi film hanno sezionato questa dinamica con la precisione chirurgica e la passione operatica di "Bellissima" di Luchino Visconti, un'opera che pulsa al ritmo febbrile del cuore di Anna Magnani, la sua indimenticabile protagonista, Maddalena Cecconi. Siamo nel 1951, nel cuore pulsante e ferito di una Roma che sta faticosamente suturando le cicatrici della guerra. Cinecittà, la "Fabbrica dei Sogni" mussoliniana, rinasce come la Hollywood sul Tevere, e un annuncio del regista Alessandro Blasetti accende una miccia di speranza collettiva: si cerca "la bambina più bella di Roma" per un nuovo film. Per Maddalena, un'infermiera che vive in un modesto appartamento popolare, questa non è un'opportunità; è una teofania, la rivelazione di un destino. Sua figlia, la piccola e goffa Maria, diventerà la tela su cui dipingere il proprio riscatto.
Visconti, l'aristocratico marxista, il patrizio prestato al popolo, orchestra qui un'opera che si colloca in un territorio anomalo e affascinante del Neorealismo. Se il cinema di De Sica e Zavattini in "Ladri di biciclette" era la cronaca spoglia e disperata della realtà, quasi un pedinamento etico della sventura, Visconti contamina la purezza documentaristica con il suo innato senso del melodramma. La sua macchina da presa non si limita a osservare le strade polverose e i cortili brulicanti; li trasforma in un palcoscenico. La folla di madri che si accalca ai cancelli di Cinecittà non è solo un campione di umanità dolente, è un coro greco che canta un peana di speranza e disperazione. Visconti non sta semplicemente mostrando la povertà, la sta mettendo in scena con la magniloquenza di un'opera verdiana, trovando una tragica, sontuosa bellezza nella disperazione quotidiana. È il Neorealismo filtrato attraverso una sensibilità decadente e teatrale, un ossimoro artistico che solo un regista della sua statura poteva rendere così potente e coerente.
Al centro di questo universo, come un sole nero che attrae e consuma ogni cosa, c'è Anna Magnani. La sua Maddalena non è un personaggio, è un evento sismico. È un torrente in piena di energia, volgarità, tenerezza e ferocia. Ogni suo gesto è eccessivo, ogni sua risata è troppo forte, ogni sua lacrima è un diluvio. La Magnani non recita la parte della "popolana", lei è l'archetipo tellurico della romanità, un concentrato di istinto e passione che il cinema raramente ha saputo contenere. Il suo corpo, il suo volto, diventano la mappa geografica di un'anima in tumulto. Vediamo in lei la furia di Medea disposta a sacrificare tutto per un'ossessione, ma anche la fragilità di una donna che cerca disperatamente una via di fuga da un'esistenza che le sta troppo stretta. La sua performance trascende la tecnica attoriale per diventare un atto di "verismo" esistenziale, un corpo a corpo con la cinepresa che lascia lo spettatore senza fiato, esausto e commosso.
"Bellissima" è, prima di ogni altra cosa, un film profondamente, dolorosamente meta-cinematografico. Si svolge un anno dopo "Viale del Tramonto" (Sunset Boulevard) di Billy Wilder, e ne condivide la spietata autopsia della macchina dei sogni. Se il capolavoro di Wilder era l'elegia funebre per una stella divorata dal suo stesso mito nella opulenta decadenza di Hollywood, quello di Visconti è il reportage dal campo di battaglia dove le aspiranti stelle vengono macellate prima ancora di poter brillare. Maddalena e Norma Desmond sono due facce della stessa medaglia ossessiva: una è all'inizio del viaggio, l'altra alla fine, ma entrambe sono vittime dello stesso miraggio, sacerdotesse di un culto che esige il sacrificio della realtà. Cinecittà, con i suoi teatri di posa fatiscenti e i suoi corridoi affollati di facce speranzose, è un non-luogo, un Purgatorio dove le anime vengono pesate sulla bilancia del fotogenico. L'industria del cinema viene mostrata non come un Olimpo di divinità, ma come un tritacarne prosaico e crudele, gestito da burocrati annoiati e tecnici indifferenti, la cui risata beffarda può distruggere un mondo.
Questa ossessione di Maddalena, questa sua fede cieca nel potere salvifico dello schermo, la rende una sorta di Madame Bovary delle borgate romane. Come l'eroina di Flaubert si avvelenava con le fantasie dei romanzi d'appendice, Maddalena si nutre delle illusioni vendute dalle riviste patinate e dal buio della sala cinematografica. La sua alienazione non nasce da un desiderio di amore romantico, ma dalla brama di "diventare immagine", di trascendere la propria condizione materiale attraverso la riproducibilità tecnica. Il cinema, per lei, è una forma di religione secolare, e il provino di sua figlia è la richiesta di un miracolo. Questa fame di astrazione, di fuga dalla carne e dalla polvere, assume contorni quasi lovecraftiani o, per usare un'analogia più moderna, Giger-iana. Il sogno del cinema si attacca a lei come un parassita biomeccanico, un organismo alieno che si fonde con la sua biologia, riprogramma i suoi istinti materni e la spinge a compiere atti di autolesionismo emotivo ed economico, come vendere i mobili di casa per pagare un insegnante di recitazione cialtrone.
Il culmine del film, la scena del provino di Maria, è una delle più strazianti e perfette della storia del cinema. Dopo un'odissea di sacrifici, umiliazioni e speranze, Maddalena riesce a intrufolarsi nella sala di proiezione per vedere il test della figlia. Ma quello che vede non è la nascita di una stella. Vede la sua bambina, goffa e impaurita, costretta a recitare una scena drammatica. Quando le viene chiesto di piangere, Maria scoppia in una risata innocente e incontrollabile. E con lei, nella sala, scoppia a ridere tutta la troupe: registi, tecnici, segretarie. È una risata crudele, sprezzante, che demolisce in un istante l'intera impalcatura del sogno di Maddalena. In quel momento, Visconti compie un miracolo di regia. Non mostra la reazione di Maddalena, ma ci fa sentire la sua umiliazione attraverso il suono di quelle risate, che diventano lame affilate che la trafiggono. È la sua epifania, la sua anagnorisis. La Fabbrica dei Sogni le ha mostrato il suo vero volto: una maschera grottesca che ride della sua fede. Vede sua figlia non più come un veicolo per il suo riscatto, ma semplicemente come una bambina, umiliata e ridicolizzata. Il parassita si stacca. L'incantesimo è spezzato.
Il finale è di una quiete e di una grazia sconvolgenti. Tornata a casa, Maddalena trova il marito che la informa che, incredibilmente, Maria è stata scelta. Un contratto è pronto. Il sogno, beffardamente, si sta per realizzare. Ma Maddalena, ormai redenta dal dolore, rifiuta. Mette a letto la figlia, le rimbocca le coperte e spegne la luce, sia sulla stanza che sul miraggio che l'ha quasi distrutta. È una vittoria silenziosa e immensa. La scelta della realtà sull'illusione, dell'amore materno sull'ambizione narcisistica. "Bellissima" non è un film sull'inseguire i propri sogni; è un film sulla terrificante possibilità che i sogni inseguano noi, fino a divorarci. È il racconto di una disintossicazione, di una liberazione da una dipendenza tanto potente quanto quella da una droga. E nel farlo, Visconti non giudica mai la sua eroina. La accompagna nel suo viaggio all'inferno e ritorno con uno sguardo che è, allo stesso tempo, critico e immensamente compassionevole. Il titolo, quindi, assume un'ultima, struggente ambiguità: non si riferisce alla bellezza artefatta del cinema o a quella presunta della bambina, ma alla terribile, imperfetta, incrinata e infine ritrovata bellezza dell'essere umano.
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