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I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Cenere e diamanti

1958

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L'ultimo giorno di guerra in Europa non porta il suono delle campane a festa, ma il ronzio sordo di un proiettile vagante e la polvere da sparo che si mescola alla cenere di un mondo distrutto. In questa terra di nessuno temporale e morale, in una Polonia che è un purgatorio a cielo aperto tra l'occupazione nazista appena conclusa e l'alba incerta del nuovo ordine comunista, si muove l'angelo stanco della morte, Maciek Chełmicki. Con i suoi occhiali scuri a nascondere uno sguardo troppo giovane per aver visto così tanta fine, e un giubbotto di pelle che è l'uniforme di una generazione perduta, Maciek è il cuore pulsante e sanguinante di Cenere e diamanti di Andrzej Wajda. Un Amleto post-bellico, un James Dean slavo precipitato in un dramma di Shakespeare riscritto da un esistenzialista, a cui la Storia ha affidato una missione di morte proprio nel momento in cui la vita, per la prima volta, sembra offrirgli una via di fuga.

Il capolavoro di Wajda, vertice della Scuola polacca e chiusura della sua trilogia sulla guerra, è un film che danza sul filo del rasoio. Si svolge tutto nell'arco di meno di ventiquattro ore, un'unità di tempo aristotelica che comprime un'intera epoca in un balletto funebre di speranze fallite e doveri atroci. Maciek, soldato dell'Armia Krajowa, la resistenza nazionale anticomunista, deve assassinare Szczuka, un segretario di partito comunista appena arrivato in città. Ma il primo attentato va storto, uccidendo due innocenti operai del cementificio. Questo errore iniziale, quasi un peccato originale, incrina la corazza del soldato e rivela l'uomo. L'assassino con la coscienza non è più un automa dell'ideologia, ma un essere umano tormentato dal dubbio. È qui che il film trascende la cronaca politica per diventare tragedia universale.

Zbigniew Cybulski, con la sua recitazione nervosa, febbrile, quasi metodista, non interpreta un personaggio: lo incarna, lo brucia vivo davanti alla cinepresa. La sua modernità è sconvolgente. Non è l'eroe monolitico della propaganda, né da una parte né dall'altra. È un ragazzo che vorrebbe innamorarsi, bere, ridere, vivere. Il suo incontro con la barista Krystyna (Ewa Krzyżewska) non è un semplice interludio romantico; è l'apparizione di un'alternativa esistenziale. L'amore, in Cenere e diamanti, è il fantasma di una vita normale, la promessa di un futuro che la Storia sembra voler negare a tutti i costi. Le loro scene insieme vibrano di una tenerezza disperata, come se entrambi sapessero di camminare su un terreno che sta per franare.

Wajda dirige con una maestria visiva che deve tanto all'espressionismo tedesco quanto al neorealismo, ma che trova una sintesi assolutamente personale e folgorante. La sua Polonia è un labirinto di corridoi d'albergo male illuminati, sale da ballo decadenti dove si festeggia una vittoria amara, e strade notturne piene di spettri. Il direttore della fotografia, Jerzy Wójcik, scolpisce lo spazio con il bianco e nero, creando un chiaroscuro che è la perfetta rappresentazione dell'anima scissa di Maciek. Ogni inquadratura è densa di significato, ogni oggetto è un simbolo carico di ambiguità. Pensiamo alla scena iconica in cui Maciek e il suo compagno d'armi accendono i bicchierini di vodka in memoria dei commilitoni caduti: un rito pagano, una messa laica che evoca la sacralità di un passato eroico ormai inutile, le cui fiammelle si spengono una a una come le vite che rappresentano.

Il simbolismo di Wajda è potente, quasi barocco, ma mai gratuito. Il crocifisso capovolto nella chiesa in rovina, dietro al quale Maciek attende la sua vittima, non è una semplice blasfemia, ma l'immagine di un mondo alla rovescia, dove i valori sono crollati e la fede non offre più alcuna salvezza. O il cavallo bianco che appare, spettrale e magnifico, nel salone dell'hotel durante i festeggiamenti: un'allucinazione collettiva, un'apparizione che sembra uscita da un quadro di De Chirico, forse il fantasma della cavalleria polacca, di un romanticismo nazionale travolto dai carri armati e dalle ideologie del XX secolo. Wajda non spiega, suggerisce. Lascia che queste immagini risuonino nello spettatore, caricandosi di un potere quasi onirico.

Il film è un adattamento del romanzo omonimo di Jerzy Andrzejewski, ma Wajda compie un'operazione di ribaltamento geniale e sovversiva. Nel libro, Maciek era un personaggio più freddo, quasi un antagonista, e la simpatia dell'autore andava chiaramente al comunista Szczuka. Wajda, e soprattutto Cybulski, trasformano Maciek nell'eroe tragico, nel ribelle romantico con cui è impossibile non empatizzare. È una mossa audace per un'opera prodotta sotto un regime comunista, un atto di equilibrismo che riesce a passare tra le maglie della censura proprio grazie alla sua complessità estetica e morale. Il film non glorifica la resistenza anticomunista, ma umanizza fino al midollo il dramma di chi ne faceva parte. Non assolve nessuno, ma compiange tutti. Szczuka stesso non è un demone, ma un uomo con una sua storia, un suo dolore, un figlio perduto che combatteva dall'altra parte.

Questa complessità lo avvicina più a un film come La battaglia di Algeri di Pontecorvo che a un convenzionale film di guerra. Entrambi i film si immergono nella violenza politica senza mai perdere di vista l'umanità dei combattenti, mostrando come la Storia trasformi uomini comuni in assassini e martiri. Ma se Pontecorvo adotta uno stile da cinegiornale, Wajda sceglie la via del poema visivo, dell'incubo lirico. Il dialogo tra Maciek e Krystyna in cui lei gli recita la poesia di Cyprian Norwid, da cui il titolo è tratto, è il centro filosofico del film. La cenere della distruzione, dell'odio, della guerra, nasconde forse un diamante? C'è qualcosa di eterno, di prezioso, che può sopravvivere a un tale annientamento? Maciek non sa rispondere, e la sua tragedia sta proprio in questo: intravede il diamante, ma è condannato a rimanere cenere.

Il finale è una delle morti più strazianti e anti-eroiche della storia del cinema. Dopo aver finalmente compiuto la sua missione, in un atto goffo e quasi patetico, Maciek viene ferito per caso da una pattuglia. La sua agonia non è quella di un eroe sul campo di battaglia. È una corsa disperata e solitaria, una contorsione di dolore tra le lenzuola stese ad asciugare, bianche come sudari, fino a crollare in una discarica. Muore tra i rifiuti, come un avanzo, un detrito della Storia. L'ultima immagine del suo corpo, rannicchiato tra la spazzatura mentre la vita e il rumore della nuova Polonia riprendono intorno a lui, è un pugno nello stomaco. Nessuna gloria, nessuna redenzione. Solo la fine assurda e insensata di una giovane vita. È la negazione radicale di ogni retorica bellica, un epitaffio che risuona ben oltre i confini della Polonia.

Cenere e diamanti è un film che continua a porre domande terribili. Cosa significa essere un eroe quando non c'è più una causa chiara per cui combattere? Si può ricominciare a vivere dopo essere stati strumenti di morte? È un'opera che, come il suo protagonista, vive in uno stato crepuscolare, tra la poesia e la brutalità, il romanticismo e il nichilismo. È il canto funebre per una generazione che ha vinto una guerra solo per trovarsi a combatterne un'altra, più subdola e fratricida, contro i propri fantasmi e i propri fratelli. Un diamante purissimo, estratto dalle ceneri ancora calde del Novecento.

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