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Il Disprezzo

1963

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Un’opera di terribile forza introspettiva con il talento dirompente di Godard libero di spaziare nel microcosmo psichico dei protagonisti mettendone spietatamente a nudo i più intimi recessi. Non un semplice dramma sentimentale, bensì un’autopsia rigorosa di un’anima borghese moderna, condotta con la lucidità chirurgica e la disincantata ironia che avrebbero consacrato Godard come il più audace e intellettualmente provocatorio tra i registi della Nouvelle Vague. Qui, il cineasta svizzero non si limita a narrare una storia d’amore in declino, ma destruttura il linguaggio cinematografico stesso per indagare la fragilità della comunicazione, la mercificazione dei sentimenti e la crisi dell’arte nell’era dell’industria culturale. La sua regia, audace e iconoclasta, rifiuta le convenzioni per abbracciare un’estetica della frammentazione, del montaggio asincrono, dell’uso straniante del colore, trasformando ogni inquadratura in un saggio visivo sulla condizione umana.

Si aggiunga la potente suggestione di Moravia che aleggia su tutto il film e si otterrà un’equazione pressochè adamantina per un’opera d’arte da decifrare ma anche da venerare. Eppure, più che un’adattamento fedele, ciò che Godard compie è una vera e propria decostruzione del romanzo, una rilettura meta-cinematografica in cui il conflitto interno dei personaggi si fonde e si scontra con le dinamiche della produzione cinematografica stessa. Il disprezzo, per Godard, non è solo quello di Camille verso Paul, ma anche il disprezzo dell’arte autentica verso la sua corruzione commerciale, un tema incarnato emblematicamente dalla figura del venerabile Fritz Lang.

La storia è incentrata sul rapporto ambiguo tra uno sceneggiatore italiano, Paul Javal (Michel Piccoli), un intellettuale squattrinato e ambiguo, e un produttore americano, Jerry Prokosch (Jack Palance), rozzamente pragmatico e ossessionato dal profitto. Questa dicotomia, profondamente godardiana, non è solo un motore narrativo, ma il cuore pulsante di una riflessione sulla colonizzazione culturale europea da parte di Hollywood.

Lo sceneggiatore è stato chiamato per risollevare le sorti di un film diretto da Fritz Lang (che interpreta se stesso, in una sorta di “metacameo”). La sua presenza non è affatto casuale, né puramente celebrativa. Lang, il maestro del cinema espressionista tedesco, qui incarna la purezza dell'arte europea, la sua integrità filosofica e la sua resistenza di fronte alle sirene del profitto hollywoodiano, rappresentato dal cinico produttore americano. Il suo personaggio diviene una sorta di contrappunto morale, un Tiresia cieco che non vede, ma "sente" la direzione sbagliata che l'industria sta prendendo, e al contempo una dichiarazione d'intenti di Godard stesso sulla propria posizione artistica. È in questo scontro tra la visione di Lang – che vuole filmare l’Odissea come un poema epico autentico e non commerciale – e le richieste di Prokosch – che desidera solo un prodotto commerciale con nudi ed effetti speciali – che il film si rivela un acuto commento sulla stessa genesi de “Il disprezzo” e sulle travagliate relazioni tra Godard e il produttore americano Joseph E. Levine, una vicenda che ha rispecchiato non poco le tensioni narrative dell’opera. Il film stesso, infatti, è nato da una commessa che richiedeva espressamente la presenza di Brigitte Bardot e di sequenze di nudo, elementi che Godard ha sublimato o, meglio, sovvertito per i propri fini artistici, trasformandoli in una critica del loro stesso uso.

La moglie dello scrittore, Camille (Brigitte Bardot), ha un moto di repulsione verso l’atteggiamento troppo servile dell’uomo nei confronti dell’americano. La sua reazione non è solo emotiva, ma profondamente simbolica, specchio della dignità che l’arte e l’amore rischiano di perdere quando assoggettati alle leggi del mercato.

Le cose precipiteranno quando la donna si convince di essere usata come merce di scambio per i fini lavorativi del marito. Questo tema della mercificazione non si limita al corpo di Camille, ma si estende alla loro relazione stessa, che si svuota di autenticità, trasformandosi in una negoziazione silente e disperata.

Sensazionale il conflitto interiore di Brigitte Bardot: per com’è evidenziato, per com’è narrato e per com’è filmato. La sua Camille, ben oltre la semplice icona erotica che l’industria cinematografica e la stampa dell’epoca le avevano cucito addosso, è qui una figura di straziante complessità. Godard la filma con una reverenza quasi dolorosa, spesso isolandola in inquadrature che ne esaltano la vulnerabilità, contrapponendo la sua bellezza scultorea alla dissoluzione interiore. La celebre sequenza nell’appartamento, che occupa una parte significativa del film e si svolge con una lucidità quasi teatrale, diviene la quintessenza di questa autopsia relazionale. Attraverso una serie di dialoghi apparentemente banali, alternati a lunghi silenzi densi di sottintesi, Godard dipinge un affresco impietoso del lento scivolamento di una coppia nell’abisso del non detto e del rancore. È qui che il suo sguardo si fa più incisivo, mostrando come la nudità fisica di Camille nell’incipit si trasformi progressivamente nella nudità emotiva di un’anima esposta, che si sente non più amata ma posseduta, non più compresa ma usata.

Una dimensione totalmente psicologica che non può non intrigare, affascinare, financo avvincere lo spettatore che diviene così morboso voyeur di una mente scarnificata appositamente per lui. Non è un voyeurismo morboso nel senso più voyeuristico del termine, quanto piuttosto un’invito quasi brechtiano a osservare la meccanica del disfacimento, il calvario di un amore che si spegne sotto il peso di incomprensioni accumulate e di un’incapacità quasi fatale di comunicare. L'uso dei colori saturi – il blu intenso del mare di Capri, il rosso acceso dell'abito di Camille – contrasta violentemente con la freddezza glaciale dei sentimenti, creando un'estetica della disillusione che è tanto visiva quanto emotiva. La partitura struggente di Georges Delerue, con il suo leitmotiv malinconico, amplifica questa sensazione di perdita irreparabile, conferendo al dramma intimo una risonanza universale. “Il Disprezzo” si erge così non solo come un ritratto impietoso di un rapporto in crisi, ma come una riflessione acuta sulla natura stessa dell’arte e sulla sua integrità di fronte alle pressioni del commercio. È un film che sfida, interroga, e infine condanna, ma lo fa con una bellezza formale e una profondità intellettuale che lo rendono immortale, un capolavoro senza tempo la cui “terribile forza introspettiva” continua a risuonare, invitando ogni nuovo spettatore a decifrarne i misteri e a confrontarsi con le sue scomode verità.

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