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Delicatessen

1991

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Un film dove i toni surreali minano il senso della realtà e dove la comicità si trasforma in impalpabile distorsione del tessuto semantico, un approccio che eleva il grottesco a strumento di indagine esistenziale. Non è semplice humour nero, ma una rilettura dell'ordinario attraverso la lente deformante del non-sense, un po' come se Ionesco avesse diretto una sit-com distopica o Kafka avesse sceneggiato un musical macabro. L'assurdo non è un mero espediente stilistico, ma la grammatica stessa di un mondo sull'orlo del baratro, dove la ragione si è dissolta in una routine di follia accettata.

Junet e Caro sono attenti ad ogni minimo dettaglio, a cominciare dalla splendida sigla introduttiva (una delle più belle mai viste), un prologo che è già una dichiarazione d'intenti e un compendio visivo dell'estetica che pervaderà l'intera opera. La macchina da presa esplora un futuro già passato, un'estetica del riuso e del decadimento che si manifesta in ogni singolo oggetto di scena, dai filtri di luce che creano atmosfere pittoriche alle texture dei muri scrostati. Il loro background nel campo dei video musicali e della pubblicità, dove l'immagine è tutto, si traduce qui in una maestria visiva che scolpisce ogni inquadratura con la precisione di un incisore, trasmettendo un senso di oppressione e al contempo un'inaspettata, quasi malinconica, bellezza. È un mondo curatissimo nella sua sporcizia, un universo artigianale dove ogni particolare concorre a definire il tono unico del film.

La storia dipinge un contesto post-atomico, all’interno di un microcosmo condominiale in cui il dispotico Macellaio decide della vita (e della morte) degli inquilini dello stabile. Questo scenario di desolazione e scarsità non è solo una cornice fantastica, ma una potente allegoria della deriva morale e della disumanizzazione che possono accompagnare la sopravvivenza in condizioni estreme. Il condominio, in tal senso, si erge a metafora di una società isolata e autoreferenziale, dove le logiche di potere si manifestano in una brutalità primitiva, celata appena da una patina di bizzarria quotidiana. L'eco di romanzi distopici come Il Mondo Nuovo o 1984 risuona qui in chiave tragicomica, dove il controllo non è esercitato da un'entità statale ma da un individuo il cui potere deriva unicamente dalla sua posizione al vertice della catena alimentare. È la legge della giungla applicata al condomini, un dramma da camera dove i confini tra vittima e carnefice si fanno sempre più labili, e la moralità è un lusso che pochi possono permettersi.

Tutto questo fino all’arrivo dell’improbabile Louison, un girovago dal passato circense che, con la sua ingenua vitalità e il suo inaspettato candore, spezzerà l’equilibrio e si ribellerà (suo malgrado) al dispotico tiranno e al suo cannibalismo strisciante. Louison non è un eroe archetipico, un cavaliere senza macchia in missione, ma un uomo le cui azioni derivano da un'innocenza quasi puerile e da una spontaneità disarmante; è un catalizzatore involontario di cambiamento in un mondo che ha dimenticato la leggerezza e la possibilità di scelta, un Don Chisciotte moderno la cui purezza d'animo si scontra con la cruda realtà del suo tempo. La sua figura è un contrappunto luminoso alla cupa atmosfera del palazzo, un simbolo di speranza che germoglia dalla più improbabile delle condizioni.

Sarà provvidenzialmente aiutato nell’impresa da una grottesca setta di uomini-topo facente base nelle fogne, figure quasi mitologiche di un sottobosco urbano che rappresentano gli ultimi, i reietti, i veri depositari di una (seppur distorta) forma di resistenza. La loro presenza non è solo un elemento surreale di pura fantasia che aggiunge un ulteriore strato di bizzarria, ma anche un commento caustico sulla marginalizzazione sociale e sulla creazione di comunità clandestine che prosperano ai margini della civiltà riconosciuta, come cellule dormienti pronte a ribaltare l'ordine costituito.

Intorno alla trama principale vi sono una miriade di personaggi da cartoon stilizzati dalle mani di una sceneggiatura pirotecnica: l’allevatore di rane in appartamento, che incarna l'ostinazione dell'uomo a trovare un senso nelle piccole, assurde attività; l’aspirante suicida perennemente incompiuta, che incarna la futilità dell'esistenza e la perenne ricerca di un senso anche nella rinuncia ad essa; il collaudatore di scatoline muggitrici, la cui ossessione per il suono meccanico è una fuga dal silenzio assordante di un'umanità al capolinea. Ogni figura è un'iperbole del quotidiano, una caricatura vivida che, nella sua assurdità, rivela tratti profondamente umani: la disperazione, la speranza, la rassegnazione, la testardaggine di aggrapparsi a piccole manie per sentirsi vivi. Sono maschere pirandelliane di un teatro dell'assurdo dove la tragedia è velata da un'irresistibile, amara, comicità, e ogni singola esistenza contribuisce a tessere il bizzarro arazzo di questa comunità claustrofobica.

L’estro dei registi si dipana in mille rivoli nell’arco dell’opera, sempre pronti a catturare un emozione surreale e a lanciarla in pasto allo spettatore sotto forma di suggestione figurativa. Questa è la cifra stilistica inconfondibile di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro, un tandem creativo che, con Delicatessen, ha saputo fondere l'estetica del fumetto e del varietà con la profondità della riflessione sociale, un equilibrio precario che verrà poi raffinato ne La Cité des Enfants Perdus. I colori caldi, quasi seppiati, e le atmosfere fumose e intime, contribuiscono a creare un'immersione totale in questo universo decadente ma vivo, dove ogni oggetto ha una storia e ogni ombra nasconde un segreto. È un cinema che si nutre di atmosfere, di suggestioni tattili e visive, un'esperienza sensoriale prima ancora che narrativa, che avvolge lo spettatore in una bolla atemporale.

Uno splendido esempio di questa tecnica, che eleva il film al di là della mera narrazione, è la sequenza in cui per documentare la quotidianità della vita del condominio, la sua martellante routine si sceglie di rappresentarla attraverso un ritmo generato dai rumori delle vite dei condomini: Louison che dipinge il soffitto con un rullo servendosi delle sue bretelle, l’amplesso sopra un letto cigolante del macellaio e della sua amante, il solfeggio della suonatrice di violoncello. Questa sequenza è un vertice di ingegno cinematografico, una sinfonia di vita e degrado che ricorda l'orchestra sonora di Jacques Tati, dove il rumore diviene linguaggio, e la cacofonia apparente si risolve in un'armonia grottesca e commovente. È il battito cardiaco del palazzo, un battito collettivo che rivela le interconnessioni invisibili tra esistenze solitarie, la dimostrazione che anche nella più estrema alienazione, l'uomo non è mai veramente solo, ma parte di un coro bizzarro e ineluttabile.

Un’apoteosi visionaria di macchiette splendidamente incastonate nel corpo principale del racconto che fanno di Delicatessen un’opera ironica e grottesca, ma anche delicata e perfino poetica. La storia d'amore tra Louison e Julie, figlia del macellaio, è il cuore pulsante di questa bizzarra favola nera, un raggio di luce in un mondo di ombre, che ricorda come la tenerezza e la connessione umana possano germogliare anche nel terreno più arido. Delicatessen non è solo un esercizio di stile o una commedia bizzarra; è un'opera che interroga la natura umana in situazioni estreme, celebrando la resilienza dello spirito e la capacità di trovare la bellezza e la speranza anche nel più profondo abisso. Rimane, a distanza di anni, un capolavoro senza tempo, un film che continua a risuonare per la sua originalità inestinguibile e la sua inclassificabile, sublime, malinconica follia, un faro nel panorama del cinema fantastico europeo.

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