Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Detour: deviazione per l'inferno

1945

Vota questo film

Media: 4.50 / 5

(4 voti)

Un odore di sigarette spente, benzina a basso costo e disperazione impregna la pellicola di Detour. Non è un semplice film, è un miasma, un'allucinazione da stanchezza rappresa su celluloide scadente. Se il Sogno Americano avesse un vangelo apocrifo, scritto sul retro di una cartina stradale macchiata di caffè, sarebbe la sceneggiatura di Martin Goldsmith per questo capolavoro ulceroso di Edgar G. Ulmer. Girato in una manciata di giorni, con un budget che oggi basterebbe a malapena per il catering di un film studentesco, Detour non è semplicemente un film noir; è la sua anima più nera e scorticata, la confessione rantolata in punto di morte di un intero genere.

Il protagonista, Al Roberts (un Tom Neal dalla perenne aria afflitta), è un pianista di New York la cui esistenza è un chiodo fisso: raggiungere la sua fidanzata Sue a Hollywood. È l'ultima scintilla di un romanticismo quasi patetico in un universo che ha già deciso di spegnerlo. Il suo viaggio in autostop attraverso l'America non è una cavalcata verso la libertà à la Kerouac, ma una discesa in un imbuto di sfortuna cosmica così precisa da sfiorare il disegno divino. Un disegno, però, tracciato da un dio sadico e beffardo. Ogni decisione, ogni gesto di apparente buon senso, si rivela un passo ulteriore verso la dannazione. È il fatalismo della tragedia greca trapiantato in un diner unto e servito con una tazza di brodaglia amara. Al non ha la statura di Edipo; la sua hamartia, il suo errore fatale, non è la superbia, ma una passività lamentosa, un’incapacità di opporsi alla corrente che lo trascina via.

Il film è strutturato come un lungo, ininterrotto flashback narrato dalla voce dello stesso Al. Questa scelta non è un mero espediente narrativo, ma la chiave di volta esistenziale dell'opera. Sappiamo fin dall'inizio che è finita, che il destino si è compiuto. Non c'è suspense sul se andrà a finire male, ma solo una morbosa curiosità sul come la trappola sia scattata. L'intera narrazione assume così i contorni di un'auto-assoluzione febbrile, il tentativo di un condannato di dare un senso a una sequenza di eventi che sfuggono a ogni logica razionale. Il mondo di Detour non è oggettivo. È il ricordo deformato di Al, un paesaggio mentale avvolto in una nebbia perenne che sembra emanare direttamente dalla sua psiche tormentata. La celebre nebbia, ottenuta con mezzi di fortuna, non è un limite produttivo, ma il più potente correlativo oggettivo della sua confusione. È il cinema espressionista tedesco – quello di Murnau, con cui Ulmer aveva lavorato – che riaffiora non nei set monumentali della UFA, ma nei fondali dipinti a basso costo della Producers Releasing Corporation, la più famigerata delle case di produzione della "Poverty Row" hollywoodiana.

Il primo scatto del meccanismo infernale è la morte accidentale di Haskell, l'uomo che gli dà un passaggio. Al, temendo di non essere creduto, ne assume l'identità e l'auto. È un peccato originale dettato non dalla malvagità, ma dalla paura. Da quel momento, Al cessa di essere Al. Diventa un fantasma al volante di un'auto che non è sua, diretto verso una vita che non potrà mai avere. Qui il film dialoga segretamente con la poetica dell'assurdo di un Camus. Al Roberts è un Meursault del B-movie, uno straniero nella propria esistenza, sballottato da eventi che accadono attraverso di lui, più che a causa sua. L'universo non è solo indifferente, è attivamente malevolo.

E se l'universo ha un'agente in terra, questa ha il volto contratto in una smorfia di puro veleno di Ann Savage. La sua Vera non è una femme fatale, è una furia, un'arpia sbucata da un incubo. Non ha la glaciale eleganza di Barbara Stanwyck in La fiamma del peccato o il fascino languido di Rita Hayworth in Gilda. Vera è sgradevole, rapace, la sua voce è unghie che stridono su una lavagna. È l'incarnazione fisica della sfortuna di Al, la deviazione del titolo fatta carne e ossa. Quando sale in macchina, capisce tutto in un istante, non per acume investigativo, ma per una sorta di sintonia maligna con il caos. Il loro duetto claustrofobico nella stanza di motel è uno dei vertici più alti della tensione cinematografica, un Kammerspiel soffocante dove il sesso è completamente assente, sostituito da un gioco al massacro verbale e psicologico. Lei non lo seduce, lo prosciuga. È un parassita esistenziale. La sua morte, strangolata accidentalmente con il filo del telefono durante una lite, è l'apice grottesco e terrificante della spirale di Al. Il filo del telefono, simbolo di comunicazione, diventa strumento di morte e di isolamento definitivo. È un'immagine di una potenza quasi surreale, degna di Buñuel.

La grandezza di Detour risiede proprio nella sua estetica della miseria. La povertà dei mezzi diventa una dichiarazione di poetica. I set spogli, le auto proiettate su uno schermo dietro gli attori, la fotografia grezza di Benjamin H. Kline, tutto contribuisce a creare un'atmosfera di squallore autentico. Un film noir con i budget della MGM sarebbe stato un esercizio di stile; Detour è un grido primordiale. È il punk rock prima del punk rock. Ulmer, un regista colto e talentuoso, esiliato dall'establishment hollywoodiano per uno scandalo personale, riversa forse la sua stessa frustrazione in questo racconto di un uomo intrappolato da forze che non può controllare. C'è una risonanza meta-testuale potentissima: un artista costretto a lavorare nell'inferno della serie B crea il ritratto definitivo dell'inferno esistenziale.

Il paesaggio americano, solitamente simbolo di promessa e di spazi sconfinati, qui si trasforma in un limbo desolato. Le pompe di benzina solitarie, i telefoni a gettoni sotto la pioggia, le stanze di motel anonime sono le stazioni di una via crucis senza redenzione. Ricordano le tele di Edward Hopper, ma spogliate di ogni malinconia lirica e riempite di un'ansia febbrile. L'America di Detour è un non-luogo, una terra desolata dell'anima dove l'identità si dissolve e il passato è un'ombra da cui è impossibile fuggire.

Nel finale, Al è di nuovo un autostoppista, ma non è più lo stesso uomo. È un guscio vuoto, perseguitato dal ritornello ossessivo: "Qualunque cosa tu faccia, per quanto tu cerchi di barare, prima o poi il destino ti allungherà una mano per darti una pacca sulla spalla". È una morale spietata, un teorema dimostrato con la precisione di un incubo. Detour è un poema stropicciato sulla fragilità del caso, un buco nero che risucchia ogni speranza. Non lo si guarda per il brivido dell'intreccio, ma per sperimentare, in 68 minuti di pura agonia cinematografica, la sensazione vertiginosa di perdere il controllo e scoprire che, forse, non lo si è mai avuto. È un capolavoro nato dal fango, e proprio per questo brilla di una luce più scura e duratura di mille soli hollywoodiani.

Galleria

Immagine della galleria 1
Immagine della galleria 2
Immagine della galleria 3
Immagine della galleria 4
Immagine della galleria 5
Immagine della galleria 6
Immagine della galleria 7
Immagine della galleria 8

Commenti

Loading comments...