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Il Diario di un Curato di Campagna

1951

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Un’opera fondamentale nella storia del cinema, non fosse altro per la sua purezza stilistica unita ad un’indagine psicologica mai leziosa ma sempre complementare alla narrazione. Bresson infonde in questo film una forza laica e al contempo mistica che sale dal personaggio principale ricavandone un ritratto grandioso e memorabile.

La sua è una purezza che non si limita alla sobrietà formale, ma si spinge fino a un rigoroso ascetismo espressivo: il rifiuto di ogni esibizione attoriale, la scelta dei "modelli" anziché degli attori professionisti, la precisione quasi matematica dell'inquadratura e del montaggio, fanno sì che l'emozione non sia recitata, ma scaturisca spontaneamente dalla giustapposizione delle immagini e dei suoni. È un cinema che esige una partecipazione attiva, un’ermeneutica dello sguardo che va al di là del visibile, poiché ogni gesto, ogni oggetto, ogni silenzio, acquista un peso ontologico ineludibile. L'indagine psicologica, lungi dal compiacersi di introspezioni verbose o affettate espressioni facciali, si rivela attraverso la voce fuori campo del diario, che diviene il filo conduttore di un’anima in tormento, un palinsesto su cui si iscrive la lotta interiore del giovane sacerdote. Questo approccio minimalista, che Bresson avrebbe poi teorizzato nelle sue celebri Notes sur le Cinématographe, trova qui una delle sue più compiute e commoventi espressioni.

La storia verte sulla figura di un giovane prete che viene destinato ad una sperduta cittadina di campagna nel nord della Francia: Ambricourt. Qui il giovane dovrà confrontarsi con la diffidenza degli abitanti e con le tensioni in seno alla famiglia più rispettabile del paese, il Conte e sua moglie. Ambricourt non è solo uno sfondo geografico, ma un vero e proprio purgatorio terreno, un microcosmo di meschinità e disperazione silente dove la fede è un fardello, non una liberazione. La sua aridità spirituale si rispecchia nella desolazione del paesaggio, un palcoscenico perfetto per il dramma intimo che si consuma. Il sacerdote, fragile e malato, si scontra con una corruzione non gridata ma strisciante, più insidiosa perché celata dietro le convenzioni sociali e l'indifferenza. La sua purezza diventa una lente d'ingrandimento implacabile sulle ipocrisie del mondo, scatenando reazioni di ostilità e chiusura, quasi che la sua stessa innocenza fosse un'accusa insopportabile. Il tentativo di riconciliare il Conte e sua moglie si trasforma in un duello spirituale con la contessa, una donna tormentata dal dolore e dalla perdita, la cui anima è un deserto di fede. Bresson non giudica, ma mostra la fatica di essere santi (o anche solo onesti) in un mondo che rigetta la luce. Il curato tenterà di riconciliare i due sposi ma otterrà ancora più ostilità.

Intanto una malattia devasterà lentamente il suo corpo e l’epilogo sarà quanto mai amaro. Questo progressivo deterioramento fisico non è mero espediente narrativo, ma una metafora potentissima della sua via crucis spirituale. Il corpo del curato diviene un campo di battaglia, una carne che si consuma come offerta sacrificale, quasi a voler materializzare il fardello delle anime che cerca invano di salvare. Le sue sofferenze, dalla fame al dolore fisico costante, sono un riflesso esterno di un’agonia interiore, una purgazione che lo avvicina non tanto a un’estasi mistica convenzionale, quanto a una rassegnata, dolorosa accettazione della condizione umana. Il suo martirio, lungi dall’essere trionfale, è intimo, silenzioso, quasi invisibile agli occhi del mondo, ma di un’intensità lacerante per lo spettatore.

Tratto da un romanzo di Bernanos quest’opera rimane un punto di riferimento indimenticabile in seno alla cinematografia francese. Bresson non si limita a un’adattamento fedele in senso letterale, ma opera una vera e propria "trasposizione", distillando l'essenza mistica e la sofferenza esistenziale del testo originale. Egli coglie lo spirito bernanosiano, quella visione di un cristianesimo tragico e della grazia che si manifesta attraverso il dolore e l’imperfezione umana, rendendola un’esperienza cinematografica universale. L'influenza di questo film è stata immensa, non solo per il cinema francese del dopoguerra — anticipando in qualche modo l'austerità e la riflessione profonda che avrebbero caratterizzato autori come Jean-Pierre Melville, pur mantenendo una poetica distintissima — ma anche per il cinema d'autore mondiale, divenendo un archetipo del racconto di un'anima in lotta. La sua estetica, così lontana dal gigantismo hollywoodiano e persino dal neorealismo italiano dell'epoca, definì un nuovo linguaggio, un cinema che si rivolgeva direttamente alla coscienza dello spettatore, invitandolo a una meditazione sulla fede, sulla sofferenza e sul mistero dell'esistenza. Quasi un assioma di come le passioni umane possano contrarsi in un lugubre canto di morte che nessuna Religione rivelata può sperare di contrastare, eppure, proprio nell'epilogo, nel sussurro quasi inudibile della celebre frase "Tout est grâce" (Tutto è grazia), Bresson ci lascia con una visione della salvezza che emerge non dalla negazione, ma dall’accettazione totale di questa stessa oscurità, offrendo una speranza amara, ma non per questo meno profonda, che solo la sofferenza più acuta può rivelare. È un'opera che, a distanza di decenni, conserva intatta la sua potenza catartica e la sua sconcertante attualità, invitando a una perenne riflessione sul confine sottile tra umano e divino.

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