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Diario di una Donna Perduta

1929

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Un viaggio attraverso la perdizione, l’annullamento totale di una donna, la sua freudiana deriva sociale fino alla resurrezione attraverso lo stesso destino che l’ha così intimamente ferita. È un’odissea che risuona con le inquietudini e le trasformazioni profonde di un’epoca, quella della Repubblica di Weimar, in cui le certezze borghesi iniziavano a scricchiolare sotto la spinta di nuove sensibilità sociali e psicologiche. Da uno splendido romanzo di Margarete Böhme, un bestseller scandalo che già denunciava le doppie morali del suo tempo, adattato con perspicace intelligenza da un ottimo Leonhardt e messo in scena da un geniale Pabst con uso di tecniche sorprendentemente moderne – contrasti di luce che scolpiscono l'anima, piani sequenza ossessivi che trascinano lo spettatore in un vortice di eventi ineluttabili, e una sequenzialità dei primi piani che rivela ogni fremito interiore –, "Diario di una Donna Perduta" non è solo cinema, ma una diagnosi impietosa. Si tratta di un'opera che scava nell'abisso della condizione femminile nella società borghese, denunciando con acuta precisione l'ipocrisia e la violenza strutturale che si celano dietro una facciata di rispettabilità perbenista e moralmente corrotta. Pabst, con la sua sensibilità quasi clinica e il suo sguardo criticamente affilato, trasforma la vicenda della protagonista in un'accusa implacabile contro una società patriarcale che non solo opprime e distrugge le donne, ma nega loro ogni spiraglio di libertà e dignità, relegandole al ruolo di oggetti o vittime sacrificali sull'altare delle convenzioni. Questo film, emblema della corrente della Nuova Oggettività (Neue Sachlichkeit), riflette la disillusione post-bellica e la necessità di un cinema che non evada, ma affronti la realtà nella sua cruda complessità.

Thymian, giovane figlia di un farmacista, vive un'esistenza serena e protetta finché l'idillio non viene spezzato dalla seduzione e dalla violenza perpetrata da Meinert, l'assistente di suo padre, figura incarnazione di una meschinità borghese. La scoperta della gravidanza, scandalo insopportabile per l'epoca, e il rifiuto sprezzante di Meinert di assumersi qualsiasi responsabilità, gettano Thymian nel baratro di una disperazione abissale. Il padre, accecato da un impeto di rabbia e dal terrore dello stigma sociale, la caccia di casa senza esitazione, condannandola a una deriva che la porterà prima in un rigido e disumano istituto correzionale. Qui, tra le mura oppressive di un’istituzione che si pretende moralizzatrice ma che è in realtà un incubo di abusi e umiliazioni sistematiche, Thymian subisce una seconda, più profonda, spoliazione della sua identità. Fuggita o dimessa, si ritrova poi in un sontuoso bordello di lusso, un purgatorio dorato dove la degradazione è velata da un'apparente eleganza. In questo ambiente ambivalente, Thymian non solo conosce la durezza della vita e la spietatezza degli uomini, ma, con una sorprendente intuizione di Pabst, incontra anche barlumi di compassione e solidarietà inattese, come quella offerta dalla contessa Geschwitz, personaggio dalla natura complessa e tragica, che si innamora di lei, offrendo un'alternativa all'amore eteronormativo e un rifugio dalle aspettative sociali. Questo bordello diventa un microcosmo di verità non convenzionali, un luogo dove le maschere cadono e i legami umani si rivelano nella loro essenza più cruda e onesta. Un giorno, in una delle svolte più amare della trama, Thymian ritrova casualmente Meinert, ormai sposato e apparentemente rispettabile, la cui ipocrisia la sconvolge. Decisa a riprendere in mano il proprio destino, decide di fuggire dal bordello con l'aiuto della contessa, intraprendendo un viaggio che le porterà a confrontarsi con il passato e a cercare una nuova vita. Il suo percorso, tutt'altro che lineare, la vede riscattarsi grazie all'amore di un giovane conte che la accoglie nella sua casa e le offre una parvenza di serenità. Ma il suo desiderio di giustizia, lungi dall'essere sopito dalla nuova agiatezza, brucia ancora, e alla fine Thymian tornerà sui suoi passi per affrontare Meinert e denunciare i suoi crimini, ottenendo finalmente una vendetta che non è solo personale, ma simbolica contro un sistema che protegge i colpevoli.

Pabst utilizza la macchina da presa con una maestria che trascende le convenzioni del suo tempo, alternando primi piani intensi, capaci di scavare nelle pieghe più recondite dell'anima di Thymian, a campi lunghi che sottolineano impietosamente la solitudine e l'isolamento della protagonista nel vasto e indifferente panorama sociale. Le scene girate nell'istituto correzionale, con le sue atmosfere claustrofobiche e oppressive, sono un esempio magistrale di come il cinema espressionista, pur non essendo l'unica cifra stilistica di Pabst, venga qui piegato a una denuncia sociale, utilizzando le luci e le ombre per creare non solo un senso di angoscia e di alienazione, ma anche per evocare la brutalità di un sistema che annulla l'individuo. La performance di Louise Brooks, nel ruolo di Thymian, è a dir poco straordinaria, e merita un capitolo a parte nella storia del cinema. Con la sua bellezza fragile e la sua enigmaticità, il suo sguardo intenso e quasi ieratico, l'attrice riesce a trasmettere tutta la sofferenza muta e la forza incrollabile di una donna che lotta non solo per la propria sopravvivenza fisica, ma per la conservazione della propria dignità. Il suo celebre "caschetto" e la sua figura iconica sono diventati il simbolo di una femminilità moderna, autoaffermata, che sfida le convenzioni. Il suo stile di recitazione, scevro da ogni enfasi melodrammatica tipica dell'epoca, è di una modernità disarmante, anticipando di decenni il naturalismo e la sottrazione. Un ritratto di donna sconvolgente nella sua lucidità, che Pabst aveva già saggiato con lei nel capolavoro precedente, "Lulù – Il vaso di Pandora", creando un dittico insuperabile sulla donna moderna tra liberazione e distruzione. La storia di Thymian, con la sua parabola di caduta e redenzione – che più che redenzione è una dolorosa presa di coscienza e una rivendicazione di agenzia –, è un monito atemporale contro l'indifferenza e la violenza sociale, un invito perentorio a lottare per un mondo più giusto e solidale. La forza inossidabile del film risiede nella sua capacità di combinare l'incisività tagliente della denuncia sociale con la profondità disarmante dell'analisi psicologica, creando un ritratto di donna indimenticabile, capace di commuovere e di far riflettere ancora oggi con una pertinenza quasi profetica. Guardare questo film lascia ancora oggi un senso represso di rabbia frammista ad ammirazione incondizionata per questa titanica figura femminile, un monumento al cinema che osa esplorare gli abissi dell'animo umano e le ipocrisie della società.

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