Movie Canon

I 1000 Film da Vedere Prima di Morire

Flee

2021

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L'animazione, qui, non è un vezzo stilistico; è un'urgenza epistemologica. Un atto di protezione, certo, ma soprattutto una dichiarazione di intenti. Jonas Poher Rasmussen, con Flee, non si limita a documentare una storia, la evoca. La fa emergere dalle nebbie della memoria traumatica, dandole una forma che la fotografia del reale non potrebbe mai catturare. Siamo di fronte a un'opera che si insinua nella tradizione del documentario animato, un sottogenere nobile inaugurato da capolavori come Valzer con Bashir di Ari Folman, ma che ne sposta l'asse dal collettivo all'intimo, dal reportage di guerra alla seduta psicanalitica. Se Folman usava il disegno per ricostruire i buchi neri di un rimosso nazionale, Rasmussen lo impiega per dare un volto—e al contempo un anonimato—a un'unica, frammentata coscienza.

Il film si apre su un lettino. Non letteralmente, ma la postura di Amin Nawabi (uno pseudonimo, il primo di molti strati protettivi) è quella del confessore, del paziente che finalmente si concede il lusso—o l'agonia—di raccontare. Sdraiato, con gli occhi chiusi, rievoca. Il regista, suo amico di lunga data, è il terapeuta maieutico che pone le domande giuste, quelle che scardinano decenni di silenzi. La struttura del film è questa conversazione, un flusso di coscienza che si dipana tra il presente danese, confortevole e borghese, e un passato afghano, russo e baltico fatto di fughe, perdite e metamorfosi forzate. Il presente è disegnato con una linea chiara, quasi da bande dessinée europea, pulita e rassicurante. Il passato, invece, è un'esplosione di stili. Il disegno si fa più espressionista, i colori si saturano o si spengono a seconda del carico emotivo della scena, e nei momenti di trauma più acuto, la linea si disfa, trasformandosi in schizzi di carboncino nero, astratti e terrificanti, come le incisioni di un Goya che avesse visto l'orrore del traffico di esseri umani.

Questa dialettica visiva tra il ricordo e la sua verbalizzazione è il cuore pulsante di Flee. Il film non si fida ciecamente della memoria del suo protagonista; anzi, ne mostra tutta la fallibilità, la natura ricostruttiva. Come in un romanzo di W.G. Sebald, dove il testo dialoga con fotografie sgranate per interrogare il peso della storia sull'individuo, Rasmussen intercala l'animazione con rari, potentissimi inserti di materiale d'archivio. Vediamo le strade di Kabul prima dei talebani, i telegiornali dell'epoca che parlano di Gorbaciov e dei Mujahideen. Questi frammenti di reale non servono a "validare" la storia di Amin, ma a creare un cortocircuito. Mettono in scena il divario incolmabile tra la Storia con la S maiuscola—quella impersonale delle news, dei grandi eventi—e la storia minuscola, soggettiva e straziante di chi quegli eventi li ha subiti sulla propria pelle. L'animazione diventa così lo spazio dell'indicibile, il linguaggio per ciò che l'obiettivo di una telecamera non può registrare: la paura, la fame, la disperazione di un bambino nascosto in un container.

Il viaggio di Amin è un'Odissea al contrario. Se Ulisse lottava per tornare a casa, Amin lotta per fuggire da una casa che non esiste più e per trovarne una nuova, un concetto, un luogo emotivo prima che geografico. La parola "casa" (home) diventa il topos centrale, un'ossessione che lo perseguita. Cos'è "casa" per chi ha dovuto cambiare nome, nazionalità, persino la propria storia familiare per sopravvivere? È una domanda che risuona con un'urgenza quasi metafisica. In questo, Amin è un eroe suo malgrado, una figura quasi da film noir. Un uomo con un passato segreto, che vive nel terrore costante che la verità possa emergere e distruggere la fragile normalità che si è costruito. La sua relazione con il compagno Kasper, che vorrebbe comprare una casa con lui, diventa il catalizzatore della crisi. L'atto di mettere radici, per chi è stato sradicato con violenza, non è un desiderio, ma una minaccia. L'acquisto di una casa diventa il correlativo oggettivo della sua incapacità di accettare un futuro, perché significherebbe fare i conti, una volta per tutte, con il proprio passato.

Ma Flee non è solo la cronaca di una fuga geopolitica. È anche, e forse soprattutto, la storia di un coming out multiplo e stratificato. Amin non deve solo rivelare il suo passato di rifugiato; deve anche fare pace con la sua omosessualità, vissuta in contesti culturali—l'Afghanistan degli anni '80, la Russia post-sovietica—dove era un tabù o un crimine. La scoperta della propria identità sessuale si intreccia in modo inestricabile con la perdita della propria identità nazionale. Le prime pulsioni erotiche, associate alle immagini dei divi del cinema d'azione occidentale sulle pareti della sua cameretta a Kabul, rappresentano un'altra forma di "fuga", un desiderio di un altrove che è sia geografico che esistenziale. Rasmussen gestisce questa doppia narrazione con una delicatezza sublime, mostrando come le diverse forme di oppressione e di segretezza si alimentino a vicenda, creando una prigione interiore da cui è difficilissimo evadere.

C'è un'analogia letteraria che si impone con forza: quella con la Scheherazade de Le mille e una notte. Ma se la mitica narratrice raccontava storie per salvarsi la vita ogni notte, Amin si è salvato la vita proprio non raccontando la sua. Il suo silenzio è stata la sua armatura, la menzogna un visto per la salvezza. Il film documenta il momento in cui questa armatura diventa una gabbia. L'atto di raccontare, per lui, non è più una condanna a morte, ma l'unica via per la liberazione, per poter finalmente "abitare" la propria vita. È un processo proustiano, in cui il sapore di una madeleine è sostituito dal suono della voce dell'amico regista, un innesco che fa riaffiorare il tempo perduto non con nostalgia, ma con il peso lancinante del trauma.

Flee è un'opera di un'intelligenza formale ed emotiva rara. Trascende la categoria di "film su rifugiati" per diventare una riflessione universale sulla natura instabile dell'identità, sul potere curativo e distruttivo della memoria e sulla necessità umana di raccontare storie per dare un senso al caos dell'esistenza. È un thriller psicologico mascherato da documentario, un poema epico ridotto alla scala di una stanza, un atto politico che rifiuta la retorica per abbracciare la specificità di un'unica, irripetibile esperienza umana. Alla fine, la fuga del titolo non è solo quella dall'Afghanistan, dalla Russia, dai trafficanti. È la fuga da sé stessi, dai segreti che ci incatenano. E la vera casa, sembra suggerire il film nel suo finale commovente e catartico, non è un luogo fisico da comprare con un mutuo, ma quello spazio di fiducia e verità che si costruisce, parola dopo parola, nell'ascolto di un altro. Un capolavoro che non si limita a mostrare, ma che insegna un nuovo modo di guardare. E di ascoltare.

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