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Fuoco fatuo

1963

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Un principe ereditario che sogna di fare il pompiere per combattere il cambiamento climatico e un istruttore dal corpo di statua greca che gli insegna a maneggiare la lancia antincendio. Una monarchia portoghese rediviva e morente, incorniciata in un futuro distopico (il 2069, centenario della nascita del regista) che guarda a un passato recente (il 2011). Un musical brechtiano, una commedia erotica, una satira post-coloniale e una fantasia ecologista. Se tentassimo di descrivere "Fuoco Fatuo" di João Pedro Rodrigues per accumulo di definizioni, finiremmo per esaurire le etichette del dizionario cinematografico senza catturarne l'essenza elusiva e cangiante. Perché questo film, compresso in 67 minuti di pura, folgorante audacia, non è una somma di parti, ma una chimera cinematografica, un oggetto filmico tanto denso quanto un saggio di Foucault e al contempo leggero e spudorato come un baccanale di Tom of Finland.

Rodrigues, da sempre cantore di un Portogallo marginale, in bilico tra il sacro e il profano, tra il fado e la techno, qui compie un'operazione di sincretismo culturale che ha del miracoloso. Abbandona le derive più cupe e fantasmatiche di opere come O Fantasma per abbracciare un'estetica che sembra unire l'irriverenza pop di un primo Almodóvar alla compostezza pittorica di un Peter Greenaway. La narrazione, esile come un filo di fumo, è un pretesto, un canovaccio su cui ricamare una serie di tableaux vivants che dialogano con secoli di storia dell'arte e del pensiero. Il corpo, come sempre nel cinema di Rodrigues, è il campo di battaglia e il tempio del desiderio. Ma qui, più che mai, diventa anche un testo politico e storico. La caserma dei pompieri, archetipo di una mascolinità eteronormata e comunitaria, si trasforma in un Parnaso omoerotico dove i corpi sudati e muscolosi dei vigili del fuoco non sono solo oggetti del desiderio del giovane principe Alfredo, ma diventano sculture viventi, repliche carnali di un canone estetico che va da Fidia a Michelangelo, passando per i santi martiri del Rinascimento.

La sequenza in cui Alfredo e il suo amato Afonso, insieme ai loro compagni, ricreano con i loro corpi nudi celebri dipinti a tema – tra cui spicca una geniale rilettura dell'"Incendio di Borgo" di Raffaello – è il cuore pulsante del film. Non è un mero esercizio di stile citazionista, un vezzo intellettuale fine a se stesso. È una dichiarazione di poetica potentissima. Rodrigues congela l'azione in pose plastiche che fermano il tempo, trasformando il sesso e il desiderio in arte, e l'arte in un commentario sulla vulnerabilità e la potenza del corpo umano. In questi momenti, il cinema di Rodrigues si avvicina a quello del Derek Jarman di Caravaggio, dove la Storia viene cortocircuitata dal desiderio queer, svelando le tensioni omoerotiche latenti sotto la patina della pittura sacra. Ma se Jarman era punk e rabbioso, Rodrigues è ironico e malinconico, più vicino a un Pasolini che avesse letto Judith Butler e che avesse deciso di girare Teorema come un'operetta pop.

Il rapporto tra Alfredo, principe bianco erede di una corona fantasma, e Afonso, pompiere nero discendente di immigrati, è la lente attraverso cui Rodrigues mette a nudo le contraddizioni irrisolte del Portogallo contemporaneo. L'amore tra i due non è mai rappresentato come una semplice favola interclassista e interrazziale. È un dialogo complesso, a tratti goffo, spesso silente, sul peso della storia coloniale. Quando la famiglia reale, mummificata nelle sue tradizioni assurde, interroga Afonso sulle sue origini, la scena vibra di una tensione che smaschera il paternalismo latente di una nazione che non ha ancora fatto pienamente i conti con il proprio passato. Il film non offre soluzioni facili, ma incarna questa dialettica nei corpi stessi dei protagonisti: il corpo disciplinato e nobile di Alfredo e quello statuario e proletario di Afonso si attraggono e si studiano, in un balletto che è tanto erotico quanto politico.

Tutto questo è innervato da un umorismo surreale e da numeri musicali che deflagrano all'improvviso, rompendo ogni illusione di realismo. Si passa da una coreografia di pompieri che mimano l'atto di spegnere un incendio a un "fado do caralho" (il fado del cazzo), cantato con serietà mortuaria, che è al contempo un inno fallico e una decostruzione iconoclasta del più sacro genere musicale portoghese. Questa giocosità dissacrante ricorda l'anarchia intellettuale di Guy Maddin, la sua capacità di mescolare il pastiche di vecchi generi cinematografici con una profonda e sentita riflessione sull'identità nazionale. Ma l'orizzonte di Rodrigues è più vasto. La cornice narrativa, con un Re Alfredo anziano che sul letto di morte nel 2069 ricorda la sua gioventù, tinge l'intera opera di una struggente nostalgia per un futuro che forse non arriverà mai. Le fiamme che il giovane principe voleva domare non sono solo quelle degli incendi boschivi, metafora fin troppo chiara della crisi climatica, ma anche quelle della passione e della rivoluzione politica, fuochi che il tempo e il compromesso hanno inevitabilmente spento.

"Fuoco Fatuo" è un film che brucia rapido e lascia dietro di sé una scia luminosa e persistente. È un'opera che richiede allo spettatore di abbandonare le categorie tradizionali e di lasciarsi trasportare da un flusso di immagini, suoni e idee che si stratificano con una densità impressionante. È un pamphlet ecologista mascherato da commedia erotica, un saggio post-coloniale che prende la forma di un musical, una riflessione sulla fine dell'Europa che ha l'audacia di essere divertente e sexy. Come un vero "fuoco fatuo", la fiammella prodotta dalla decomposizione della materia organica, il film di Rodrigues nasce dalla decomposizione dei generi, delle ideologie e della storia, e da essa trae una luce tanto effimera quanto abbagliante. È un cinema che non teme il ridicolo e proprio per questo raggiunge il sublime, dimostrando che l'intelligenza più acuta può felicemente convivere con la gioia più sfrenata e la provocazione più sfacciata. Un piccolo, incandescente capolavoro.

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