Gertrud
1964
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Regista
Un atto di levitazione cinematografica, un testamento scolpito nel ghiaccio, un colloquio con i fantasmi. Parlare di Gertrud di Carl Theodor Dreyer significa maneggiare un oggetto sacro e contundente, un monolito caduto sulla Terra nel 1964 per sfidare tutto ciò che il cinema di quel decennio, esplosivo e iconoclasta, stava diventando. Se la Nouvelle Vague era un assalto cinetico alla sintassi del visibile, Gertrud è la sua antitesi radicale: una seduta spiritica in cui la cinepresa non cattura il movimento, ma l'immobilità che precede e segue ogni gesto, l'eco silenzioso che riempie le stanze dopo che le parole sono state pronunciate.
La sua ricezione iniziale, fatta di fischi e sdegno alla prima parigina, è oggi un aneddoto che ne certifica la grandezza, non un marchio d’infamia. Il pubblico del ’64, ubriaco dei jump-cut di Godard e del vitalismo di Truffaut, non era pronto per questo epitaffio alla purezza. Dreyer, ottantenne, non stava girando un film per il suo tempo, ma un’opera contro il suo tempo, un ritorno a un’essenza spirituale che il mondo moderno sembrava aver archiviato con noncuranza. Il film è l'adattamento di una pièce del 1906 del drammaturgo svedese Hjalmar Söderberg, un'opera figlia del Simbolismo e della psicanalisi nascente, e Dreyer ne preserva l'origine teatrale non per pigrizia, ma per scelta estetica precisa. I personaggi non abitano gli spazi, li recitano. I dialoghi non sono conversazioni, ma litanie, dichiarazioni d'intenti esistenziali pronunciate con un tono ieratico, quasi sonnambolico.
La trama, in superficie, è un triangolo amoroso da salotto borghese, o meglio, una costellazione di amori falliti. Gertrud, ex cantante lirica, è intrappolata in un matrimonio senza passione con un politico carrierista, Gustav Kanning. Cerca l'amore assoluto tra le braccia di un giovane e fatuo compositore, Erland Jansson, mentre il suo vecchio amore, il poeta Gabriel Lidman, torna a ossessionare il suo presente. Ma ridurre Gertrud alla sua sinossi è come descrivere 2001: Odissea nello spazio parlando di una scimmia che lancia un osso. Il cuore del film è il motto di Gertrud, "Amor Omnia" – l'Amore è tutto. Non un amore romantico, carnale o borghesemente accomodante, ma un Ideale platonico, una fiamma che esige tutto e non accetta compromessi. Gertrud è un'eroina tragica non perché perde l'amore, ma perché lo trova troppo piccolo, troppo umano, inadeguato alla sua fame di assoluto.
Dreyer traduce questa intransigenza in un linguaggio visivo di ascetismo quasi insopportabile. La sua cinepresa si muove con una lentezza glaciale, con lunghissimi piani sequenza che non seguono l'azione ma la contemplano. I suoi celebri pan, fluidi e inesorabili, non collegano i personaggi, ma ne sottolineano la distanza incolmabile. Sono come dita spettrali che tracciano le geometrie della solitudine all'interno delle stanze impeccabilmente disegnate da Henning Bahs, stanze che assomigliano più a mausolei del sentimento che a dimore vissute. È un cinema che esige una resa incondizionata dallo spettatore, costringendolo ad abbandonare le proprie abitudini percettive e a entrare in uno stato di trance meditativa.
In questo, Gertrud trova un fratello spirituale non tanto nel cinema coevo, quanto nelle tele di un altro maestro danese, il pittore Vilhelm Hammershøi. Guardando i suoi interni spogli, le sue figure femminili di schiena immerse in una luce lattiginosa e in un silenzio palpabile, si ha la stessa sensazione di tempo sospeso, di vita interiore che pulsa sotto una superficie di calma mortale. Entrambi, Dreyer e Hammershøi, dipingono prigioni dell'anima, spazi in cui l'assenza pesa più della presenza. Gertrud, che spesso si specchia o guarda fuori da una finestra, è una creatura di Hammershøi che ha preso la parola, ma solo per confermare l'impossibilità di comunicare la propria essenza.
Il film è anche una profonda riflessione meta-artistica. Tutti gli uomini di Gertrud sono, a loro modo, artisti o creatori: un poeta, un politico (creatore di discorsi e di potere), un musicista. Ma tutti hanno tradito il loro ideale per la vita, per il compromesso, per il successo. Solo Gertrud, l'artista che ha smesso di cantare, rimane fedele alla sua unica, vera opera d'arte: la purezza del suo ideale d'amore. In questo, Gertrud è Dreyer. Il regista, alla fine della sua carriera, si identifica con la sua eroina. La sua intransigenza, la sua ricerca di una forma pura e spirituale di cinema che rifiutava le lusinghe del mercato e della moda, è la stessa di Gertrud. Il film diventa così un autoritratto mascherato, il congedo di un artista che, come la sua protagonista nell'epilogo, sceglie una solitudine fiera e luminosa, circondato dai fantasmi delle sue creazioni e dei suoi amori (cinematografici).
Si potrebbe tracciare una linea che la connette alla Nora di Ibsen, un'altra donna che rifiuta il suo ruolo nella società borghese. Ma se la porta sbattuta da Nora in Casa di bambola è un atto di rottura che apre a un futuro incerto ma possibile, la scelta di Gertrud è un movimento inverso: non una fuga verso il mondo, ma un ritiro dal mondo. Non cerca l'emancipazione sociale, ma la coerenza spirituale. Il suo isolamento finale non è una sconfitta, ma il trionfo definitivo del suo principio, l'unico modo per preservare l'integrità del suo "Amor Omnia" dalla contaminazione della realtà.
Il rigore formale, che a un occhio distratto può apparire legnoso, è funzionale a questa astrazione. La recitazione deliberatamente anti-naturalistica, quasi un cantilenare, allontana i personaggi dalla psicologia spicciola per elevarli a emblemi, a idee che camminano. È una tecnica che ricorda il teatro Nō giapponese o, per restare nel cinema, l'approccio di Robert Bresson ai suoi "modelli", spogliati di ogni artificio per diventare puri veicoli di grazia o dannazione. Nina Pens Rode, nel ruolo del titolo, è straordinaria nel rendere questa statua vivente, il cui volto diventa una tela bianca su cui si proiettano i sogni infranti e la determinazione inflessibile di un'anima che ha visto l'Assoluto e non può più accontentarsi di altro.
Vedere Gertrud oggi è un'esperienza che purifica lo sguardo. In un'era di stimoli audiovisivi frenetici, di montaggio epilettico e narrazioni iper-complesse, la calma radicale di Dreyer agisce come un contro-incantesimo. Ci insegna a guardare di nuovo, a trovare il dramma in un volto immobile, la tensione in un silenzio prolungato, l'universo in una stanza chiusa. È il punto omega del cinema di Dreyer, il luogo dove la sua ricerca di un "realismo trasfigurato" giunge alla sua conclusione più estrema e perfetta. Non un film da "piacere", ma un'opera da esperire, un rito di passaggio per ogni cinefilo che voglia comprendere fino a quali vette di astrazione e di purezza possa spingersi la settima arte. È il bianco abbacinante di un'anima che ha scelto di non spegnersi, ma di ardere fino in fondo nella solitudine del proprio fuoco. E il suo silenzio, alla fine, risuona più forte di qualsiasi esplosione.
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