Giglio infranto
1919
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Regista
Dalle ceneri incandescenti e dalla magniloquenza epica di Nascita di una Nazione, David Wark Griffith estrae, quasi per contrappasso dantesco, la più fragile e sussurrata delle sue opere. Se il suo precedente, controverso kolossal era un affresco storico urlato a piena voce, un'opera-mondo che tentava di riscrivere la memoria di una nazione con la furia del montaggio alternato, Giglio infranto è la sua antitesi cameristica, un haiku tragico immerso nelle nebbie oppiacee e fuligginose della Limehouse londinese. È il tentativo, forse disperato, forse calcolato, di un titano del cinema di dimostrare di possedere non solo la forza di un narratore di masse, ma anche l'anima di un poeta crepuscolare.
Il film si apre e si chiude in un'atmosfera che non è semplicemente scenografia, ma stato d'animo. La Londra di Griffith non è quella reale, topografica, di Charles Dickens, ma un suo distillato espressionista, un labirinto dell'anima che sembra partorito da una collaborazione postuma tra James Whistler e i poeti simbolisti francesi. La nebbia, resa con un uso pionieristico e magistrale del soft focus, non è un mero agente atmosferico; è un velo che separa il mondo della brutale realtà da quello del sogno, della speranza e, infine, della tragedia. Attraverso questa cortina diafana si muovono tre archetipi, tre figure che trascendono il melodramma vittoriano da cui sono tratte per assurgere a simboli universali.
Da un lato, la violenza tellurica, primordiale: Battling Burrows (un terrificante Ernest Torrence), pugile alcolizzato e padre abusivo. Non è un cattivo da operetta; è una forza della natura, un Golem di fango e rabbia la cui brutalità non conosce né logica né redenzione. È l'incarnazione del determinismo naturalista di Émile Zola, un prodotto del suo ambiente degradato, un uomo la cui unica forma di espressione è la percossa. La sua casa non è un focolare, ma una tana, un'arena dove si consuma quotidianamente il sacrificio dell'innocenza.
Quell'innocenza ha il volto etereo e traslucido di Lillian Gish nei panni di Lucy, il "giglio" del titolo. La Gish non recita, si fa icona. La sua performance è un trattato di arte attoriale che anticipa di decenni le future conquiste del cinema. È un corpo fragile, quasi preraffaellita, su cui si abbatte la violenza del mondo. La sua celebre scena nell'armadio, un balletto del terrore lungo quasi due minuti, è una delle vette assolute del cinema muto e, forse, del cinema tout court. Assediata dal padre che sta per sfondare la porta, il suo corpo si contrae, si agita, si contorce in una danza spastica di puro panico. Il tentativo di forzare un sorriso sulle proprie labbra con le dita, un gesto disperato per placare la furia paterna, è un'immagine che si incide a fuoco nella memoria dello spettatore. In quel singolo gesto c'è tutta la poetica del film: la disperata ricerca della bellezza in un mondo che la vuole annientare.
A fare da catalizzatore tra queste due forze opposte è Cheng Huan (Richard Barthelmess), il "Giallo", un giovane immigrato cinese che ha lasciato la sua terra per portare i pacifici insegnamenti del Buddha nel cuore selvaggio dell'Occidente. Certo, la convenzione dell'epoca, oggi straniante, di affidare il ruolo a un attore occidentale in yellowface è un documento storico delle prassi produttive di allora. Ma superato questo scoglio filologico, il personaggio emerge come una figura di una modernità sorprendente. È l'esteta, il contemplativo, l'esule del sentimento che cerca di costruire un piccolo tempio di pace e bellezza – il suo negozio pieno di sete e oggetti preziosi – in mezzo al fango di Limehouse. La sua attrazione per Lucy non è lussuria, ma una forma di adorazione estetica. Vede in lei non una donna, ma l'incarnazione di una purezza che credeva perduta, lo stesso "giglio" che coltiva nella sua terra lontana. Il loro rapporto è un idillio impossibile, una parentesi di tenerezza destinata a essere schiacciata dalla realtà.
Griffith orchestra questo triangolo con una sensibilità visiva sbalorditiva. Abbandonata la grandiosità dei campi lunghi, si concentra sui primi piani, scavando nei volti dei suoi attori come uno scultore. Utilizza le didascalie non come semplici riassunti dell'azione, ma come frammenti lirici, versetti di una poesia malinconica. L'uso del colore – il viraggio seppia per le scene di interni, il blu spettrale per le notti londinesi, il rosa per i momenti di fragile intimità tra Lucy e Cheng Huan – non è decorativo, ma drammaturgico. È un codice emotivo che guida lo spettatore attraverso gli stati d'animo dei personaggi, una tecnica che preannuncia l'uso del colore psicologico che farà la fortuna di registi come Antonioni o Kieslowski.
Meta-testualmente, Giglio infranto può essere letto come la confessione estetica dello stesso Griffith. Dopo aver scatenato le forze della storia e della polemica con Nascita di una Nazione, il regista sembra quasi ritrarsi, rifugiarsi nell'intimismo per esplorare le conseguenze della violenza non su una nazione, ma su un singolo, fragile corpo. È come se un compositore di sinfonie wagneriane decidesse improvvisamente di scrivere una sonata per pianoforte di Chopin. Il film è un'elegia sulla sconfitta della gentilezza, una meditazione sulla difficoltà di preservare la bellezza in un mondo dominato dalla forza bruta. La missione di Cheng Huan di diffondere la pace in Occidente fallisce miseramente, e la sua conversione finale alla violenza, nel tragico epilogo, è la constatazione amara che il mondo di Battling Burrows, alla fine, contamina e distrugge ogni cosa.
Con quest'opera, Griffith non solo crea un capolavoro di lirismo e potenza emotiva, ma stabilisce anche un nuovo paradigma per il cinema drammatico. Dimostra che la vera epica non risiede necessariamente nelle battaglie campali o negli eventi storici, ma può essere trovata nel piccolo spazio di un armadio, nel tremore di un sorriso forzato, nello sguardo di due anime incomprese che si trovano per un istante in mezzo al caos. È un film che, a oltre un secolo di distanza, conserva intatta la sua capacità di commuovere e turbare, un'opera che sanguina ancora bellezza, un giglio perfetto e per sempre infranto.
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