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Gilda

1946

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Il linguaggio del cinema è fatto essenzialmente di corpi e di carne, e poi di parole e gesti: è un codice espressivo che nasce dal corpo umano per ramificarsi in mille direzioni ermeneutiche, capace di trasformare la fisicità in un vettore di significato profondo, una semiotica della presenza che supera il mero racconto per farsi espressione pura di emozioni, desideri, conflitti irrisolti. In questo senso, la macchina da presa non si limita a registrare, ma incornicia, esalta, frammenta e ricompone il corpo, rendendolo l'epicentro di ogni dramma.

Gilda è forse il riscontro esemplare di questa tesi, elevando il concetto a una forma d'arte quasi metafisica.

Il film infatti estrinseca il suo messaggio attraverso il corpo e i gesti di Rita Hayworth, plasmando un’iconografia sopravvissuta al tempo e ai mutamenti della Settima Arte, tanto da trascendere la sua stessa epoca per radicarsi nell'immaginario collettivo come simbolo della sensualità più pericolosa e magnetica. La sua presenza scenica, frutto anche di un background di ballerina, conferisce a ogni movimento una grazia felina, una fluidità che non è mai mera esibizione, ma sempre espressione di un tumulto interiore. Quel rosso fiammante dei suoi capelli, quasi un grido cromatico in un mondo spesso monocromatico come quello del noir classico, divenne un marchio di fabbrica, un'affermazione di vitalità e pericolo.

Il personaggio di Gilda, archetipo della femme fatale, assume sostanzialmente la valenza di contenuto semantico configurandosi come fulcro narrativo e iconografico dell’opera. Non è semplicemente una figura che agisce sulla trama, ma la trama stessa si snoda intorno alla sua enigmatica natura, al suo potere di attrazione e repulsione. Gilda non è solo la tentatrice che conduce l'uomo alla rovina, ma è anche, in un'analisi più sottile, una figura prigioniera del proprio fascino e delle dinamiche maschili che la circondano. La sua vulnerabilità traspare sotto lo strato di seduzione, rendendola un personaggio ben più complesso di molte sue omologhe del genere noir, le quali spesso incarnavano una malvagità più unidimensionale.

Tratto dall’omonimo racconto di E. A. Ellington e portato sul grande schermo da Charles Vidor — un regista spesso sottovalutato, ma abile nel dirigere attori e nel creare atmosfere cariche di tensione sessuale e psicologica — il film ottenne un grandioso successo planetario. La sua forza non risiedeva solo nella storia intrigante, ma nell'audacia visiva e tematica che, pur operando sotto le rigide morse del Codice Hays, riusciva a comunicare un sottotesto di provocazione e ambiguità sessuale sorprendentemente esplicito.

La storia è ambientata a Buenos Aires nel 1945, un'ambientazione atipica per il noir classico, che di solito privilegiava le metropoli americane sporche e disilluse. Qui, la capitale argentina diventa un crocevia esotico di destini, un limbo dorato dove le regole morali sembrano più labili e l'ombra del passato si allunga con prepotenza. Johnny, un giocatore spiantato con il vizio di barare, è l'incarnazione del cinismo disilluso tipico dell'eroe noir. Pizzicato in un Casinò, la sua vita prende una svolta inaspettata quando diviene il braccio destro del proprietario Ballin Mundson, che lo elegge a capo della sicurezza del locale. Questa relazione tra i due uomini è fin da subito intrisa di un'ambigua e quasi palpabile tensione, una dinamica di potere e lealtà che alcuni critici hanno letto come un velato ma potente sottotesto omoerotico, in cui Gilda diventa la catalizzatrice, o persino l'oggetto di scambio, della loro complessa e malsana devozione.

Tempo dopo Ballin torna da una vacanza accompagnato da una conturbante fanciulla che ha sposato. Tra Johnny e Gilda, la donna di Ballin, c’è qualcosa di elettrico, una sorta di attrazione e repulsione che ha origine nel passato dei due, protagonisti di una storia d’amore finita precipitosamente. Sarà l’inizio di un tenebroso triangolo che porterà i tre a misurarsi in una sorta di equazione dalle variabili sfuggenti e non risolvibili, un vero e proprio gioco di specchi psicologici dove amore, odio, gelosia e desiderio di controllo si fondono in un vortice autodistruttivo. La regia di Vidor esalta questo claustrofobico balletto di emozioni, spesso intrappolando i personaggi in primi piani e inquadrature che ne sottolineano l'isolamento e la reciproca ossessione.

Tante le scene che fanno di questo film un caposaldo del genere noir, ma forse quella innervata all’immaginario di ogni amante del cinema, immortalata e omaggiata fino alla nausea, è quella in cui Gilda, con sensualità fluida e immanente, canta “Put The Blame on Mame” ammiccando deliziosamente agli avventori estasiati. Questa sequenza, pur essendo stata pesantemente censurata nella sua versione finale – si dice che la coreografia originale fosse ben più provocatoria, con Rita Hayworth che avrebbe dovuto sfilarsi un reggiseno, ridotta poi al solo gesto di togliersi un guanto – rimane un culmine di maestria cinematografica. Non è una semplice esibizione, ma un atto di sfida, una performance di ribellione in cui Gilda si appropria del proprio corpo e della propria sessualità per provocare, vendicarsi, affermare la propria esistenza al di là delle definizioni maschili. Il simbolico sfilarsi del guanto diventa un gesto di svestizione psicologica, un'esposizione della sua anima tormentata sotto la patina di seduzione. Ha fatto di questo film un archetipo del genere noir, ma anche un simbolo della complessa relazione tra l'immagine costruita di una star, la sua arte e la sua stessa vita, come dimostra il tragico destino di Rita Hayworth, spesso intrappolata nel mito della "dea dell'amore" che Gilda aveva così potentemente contribuito a creare. Il film non è solo un classico, è un monumento all'ambiguità e alla potenza iconica del cinema, una lezione di come un corpo e un guanto possano raccontare più di mille parole.

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