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Rapacità

1924

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Un’opera visionaria, ossessiva e maledetta, ma al contempo geniale nel suo vorticoso periplo all’interno di psicologie corrotte. Erich von Stroheim non fu mai capito fino in fondo, fu un personaggio talmente inviso e controverso che Abel Gance ebbe a dichiarare in proposito: « Un genio, un uomo di immense capacità che è stato messo nell’impossibilità di nuocere, costretto per vivere a fare l’attore agli ordini di registi mediocri ». Questa amara constatazione coglie in pieno la tragedia di un autore la cui titanica ambizione si scontrava frontalmente con le logiche mercantili di una Hollywood nascente, incarnate da figure come il potentissimo Irving Thalberg della MGM. Von Stroheim era un fervente sostenitore del naturalismo cinematografico, un movimento che, attingendo direttamente alle radici letterarie di Émile Zola e dei suoi epigoni, mirava a rappresentare la realtà in modo crudo, impietoso e, soprattutto, senza compromessi moralistici o edulcorazioni. In quest'opera il regista si concentra sull'analisi psicologica dei personaggi con una precisione quasi clinica, esplorando i loro desideri più oscuri, le loro ossessioni più recondite e le loro innate, spesso ignobili, pulsioni. Il film diviene così una feroce critica alla società americana, che vede l'avidità e la corruzione non come deviazioni, ma come i motori principali del comportamento umano, un’amara riflessione sul fallimento del Sogno Americano nella sua declinazione più materialistica e spietata. Lo stile visivo di Von Stroheim è caratterizzato da inquadrature lunghe e profonde, una proto-sperimentazione del deep focus che permetteva di catturare ogni infimo dettaglio della miseria umana e ambientale, creando un senso di claustrofobia e di oppressione non solo spaziale, ma anche spirituale. La narrazione è lenta e dettagliata, con un ritmo che non cerca scorciatoie drammatiche, ma riflette la lentezza inesorabile con cui si consumano le tragedie interiori e il declino morale dei suoi antieroi.

Al centro della narrazione troviamo McTeague, un semplice dentista di origini tedesche, incarnazione di una forza primitiva e quasi bestiale, e Trina, una giovane donna dal cuore d'oro, almeno in superficie, ma intrinsecamente ossessionata dal denaro. Il loro matrimonio, inizialmente segnato da un amore sincero, una tenerezza quasi rozza ma autentica, si trasforma in una spirale di avidità e distruzione quando Trina vince una considerevole somma alla lotteria. Questa vincita, lungi dall'essere una benedizione, si rivela la più crudele delle maledizioni, un catalizzatore che porta alla luce le patologie latenti dei protagonisti. L'oro, anziché unificare la coppia, ne accentua le differenze e le fragilità, diventando un veleno che corrode ogni barlume di affetto e ogni vincolo di umanità. McTeague, sempre più dominato dall'ossessione per il denaro di Trina e dalla sua stessa frustrazione, si trasforma in un marito violento e possessivo, la sua brutalità primordiale amplificata dalla follia della consorte. La loro storia d'amore degenera in una tragedia annunciata, che li porterà a perdersi nell'immensità desolata del deserto californiano, un paesaggio nudo e impietoso che riflette perfettamente il vuoto morale e spirituale che li ha inghiottiti, culminando in un confronto finale di crudezza biblica. Intorno a loro, una galleria di personaggi marginali e corrotti, come Marcus, l'amico di McTeague innamorato di Trina, la cui invidia e la cui grettezza sono specchio della nascente depravazione, e la zia Mac, la figura materna di Trina, che incarna una forma di avarizia più sottile e socialmente accettata, contribuiscono a creare un'atmosfera cupa e opprimente, un affresco vivido di un mondo dove ogni valore è stato svuotato.

Un’opera mutilata dai produttori in uno degli episodi più controversi della storia del cinema. Originariamente concepito per essere un'epopea di oltre nove ore, la visione di Von Stroheim fu brutalmente compressa, prima a quasi quattro ore da lui stesso per la première, poi ridotta dalla MGM a poco più di due ore, lasciando dietro di sé leggende di bobine perdute e una ferita insanabile nell'anima del regista. Eppure, anche nella sua forma troncata, "Rapacità" si staglia come un film straordinario sui sordidi impulsi umani, sull'azzeramento di ogni lacerto di umanità dinanzi alla feroce contingenza del denaro e della pura, cieca, avarizia. "Rapacità" è un esempio quintessenziale di cinema introspettivo, un punto di vista che tende ad enfatizzare gli aspetti psicologici e interiori dei personaggi con una profondità e una spietatezza quasi inedite per l'epoca. Tratto dal romanzo di Frank Norris "McTeague", l'opera riflette il carattere di denuncia sociale che Norris volle dare alla sua narrazione con particolare attenzione alla rappresentazione della classe operaia e delle sue aspirazioni frustrate in un contesto di darwinismo sociale. Ma Von Stroheim riuscì a trascendere le atmosfere del libro conferendo alla narrazione una sfumatura ossessiva e paranoica che elevò la critica sociale a universale dramma umano. Tutto ciò è lampante nella scena del banchetto di nozze tra McTeague e Trina. Nel romanzo, Norris descrive in modo dettagliato il banchetto, sottolineando l'opulenza e lo sfarzo che contrastano con la povertà dei protagonisti, un mero dato sociologico. Nel film, Von Stroheim utilizza una serie di inquadrature suggestive e di primi piani penetranti non solo per sottolineare la tensione e l'ipocrisia che caratterizzano l'evento, ma per infondere un senso di presagio, di fatalità imminente, generando un effetto di sospensione e di attesa che paralizza lo spettatore. Ogni sguardo, ogni gesto, ogni oggetto sulla tavola diventa un simbolo carico di significato, premonitore della tragedia a venire. Con quest'opera, dunque, si affaccia prepotentemente l'indagine psicologica nel Cinema, non più come accessorio narrativo ma come nucleo pulsante, facendo di Von Stroheim un autentico precursore e un modello capace di ispirare innumerevoli registi futuri, da Orson Welles – la cui profondità di campo in Citizen Kane riecheggia in parte la complessità visiva di Greed – ai maestri del Neorealismo che, pur con intenzioni diverse, condividevano la medesima attenzione per la realtà più cruda, fino ai grandi autori del film noir e del dramma psicologico, che avrebbero continuato a esplorare gli abissi della psiche umana con la stessa audacia e lo stesso, impietoso, occhio.

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