Hiroshima Mon Amour
1959
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Regista
Una pietra rara e preziosa nello scrigno del cinema francese. Non solo per la sua bellezza lapidea e il suo impatto emotivo, ma per l'audacia intellettuale e stilistica che ha ridefinito le frontiere del racconto cinematografico.
Alain Resnais dirige con poetico mestiere una storia che sfiora ricordi e brandelli di vite passate, elevandosi a una meditazione profonda sull'inesorabile scorrere del tempo, sulla cicatrice indelebile del trauma e sull'ambigua natura della memoria stessa. La sua sensibilità, già acuta in documentari come Nuit et Brouillard, che esplorava l'orrore della Shoah con una lucida e straziante onestà, qui si sposta su un piano più intimo e psicologico, pur mantenendo un respiro universale. Resnais, spesso associato alla Nouvelle Vague ma più precisamente collocato nel gruppo della Rive Gauche – affianco a cineasti come Agnès Varda e Chris Marker, tutti caratterizzati da un approccio più letterario, filosofico e da una profonda coscienza storica – forgia con Hiroshima Mon Amour un linguaggio visivo e narrativo radicalmente nuovo.
Una donna viene inviata a girare un film pacifista a Hiroshima, conoscerà un uomo giapponese con cui passerà la notte. L’incontro diviene occasione per destare un vecchio amore sopito per un soldato tedesco durante la seconda guerra mondiale. La narrazione, co-scritta dalla visionaria Marguerite Duras – la cui prosa lirica e frammentata trova qui la sua perfetta trasposizione cinematografica – si snoda in una continua osmosi tra passato e presente, tra il qui e ora di Hiroshima e il ricordo doloroso di Nevers, la città francese dove la giovane donna aveva vissuto il suo tragico amore. La città giapponese non è solo uno sfondo, ma un'entità viva, un personaggio silenzioso la cui storia di annientamento e rinascita si riflette nella psiche tormentata della protagonista. Il suo corpo, i suoi gesti, i suoi sussurri, divengono il catalizzatore di un'analisi quasi proustiana della memoria involontaria, ma con un'urgenza post-atomica che la rende bruciante.
Un film che fa della memoria umana e delle emozioni vissute un pilastro su cui reggere il suo magnifico lirismo. La memoria qui non è un semplice archivio di eventi, ma un campo di battaglia, un'entità fluida e ingannevole, capace di celare e rivelare, di torturare e liberare. Resnais e Duras esplorano la paradossale necessità di dimenticare per sopravvivere a un dolore troppo grande, e al contempo l'impossibilità di farlo davvero, perché il passato, come un fantasma, continua a riemergere, distorto, ma potentemente presente. Questo dialogo tra l'oblio necessario e il ricordo ineludibile è il cuore pulsante dell'opera. Il film è intessuto di un dialogo non lineare, fatto di ripetizioni ossessive, di frasi troncate, di un flusso di coscienza che riflette la natura stessa del ricordo, mai nitido e sequenziale, ma sempre associativo, emotivo, sfuggente.
Una scena su tutte: il meraviglioso monologo che la donna recita quasi in sogno, abbracciata al suo amante, mentre scorrono le immagini di Hiroshima in movimento, una creatura sinuosa che accompagna il sussurro della donna: “Come te, anch’io ho cercato di lottare con tutte le mie forze contro la smemoratezza e come te ho dimenticato. Come te ho desiderato avere un’inconsolabile memoria. Una memoria fatta d’ombra e di pietra. Ho lottato da sola, con violenza, ogni giorno, contro l’orrore di non poter più comprendere il perché di questo ricordo. Come te, ho dimenticato. Perché negare l’evidente necessità del ricordo. Ascoltami, io lo so tutto ciò si ripeterà: duecentomila morti, ottantamila feriti in nove secondi, queste cifre sono ufficiali, ma tutto ciò si ripeterà. Avremo diecimila gradi sulla terra. Diecimila soli si dirà, brucerà l’asfalto, regnerà un profondo disordine, un’intera città sarà sollevata da terra e ricadrà in cenere e vegetazioni nuove sorgeranno dalla sabbia. Quattro studenti attendono insieme una morte fraterna e leggendaria. I sette bracci dell’estuario a delta del fiume Ota si svuotano e si riempiono all’ora solita, più precisamente alle ore solite, di un’acqua fresca e pescosa, grigio azzurra, secondo l’ora e le stagioni. Ma le genti non guarderanno più lungo le rive fangose il risalire lento della marea dei sette bracci dell’estuario a delta del fiume Ota. Io ti incontro e mi ricordo di te. Chi sei tu? Tu mi uccidi. Tu mi fai del bene. Come avrei potuto sapere che questa città era fatta per il mio amore? Come avrei potuto sapere che il tuo corpo si adatta al mio? Tu mi piaci, che avvenimento. Tu mi piaci … che languore all’improvviso. Che dolcezza, tu non puoi sapere. Tu mi uccidi, tu mi fai del bene … Tu mi uccidi, tu mi fai del bene. Ho ancora tempo, te ne prego: divorami, deformami fino all’orrore. Perché non te? Perché non te in questa città e in questa notte tanto simile alle altre, al punto di rendersi irriconoscibile. Te ne prego … E’ pazzesco che tu abbia una bella pelle…”.
Questo monologo non è solo un punto apicale della sceneggiatura, ma un’istantanea dell’anima della donna, un grido di dolore e di desiderio, un’ammissione della propria vulnerabilità e della propria forza. Le cifre brutali della catastrofe nucleare si mescolano ai dettagli intimi del corpo dell'amante, creando un cortocircuito emotivo che annulla ogni distanza tra il personale e il politico, tra la grande storia e il dramma individuale. La scena sintetizza l'audacia formale del film: l'uso del voice-over come corrente sotterranea della coscienza, il montaggio associativo che sovrappone immagini documentarie della vera Hiroshima ai frammenti del ricordo di Nevers, e la capacità di trasformare il dolore in una forma di bellezza malinconica e inesorabile. Il film è una sinfonia di immagini e parole che si rispondono e si completano, elevando l'erotismo dell'incontro a metafora di un tentativo di riconnessione con il mondo dopo la devastazione, sia essa personale o collettiva. È il primo film a confrontarsi in modo così diretto e intimo con l'indicibile, aprendo la strada a un cinema che non teme di affrontare le pieghe più oscure della psiche umana e della storia. Un'opera che, a più di sessant'anni dalla sua uscita, continua a risuonare con una potenza rara, sfidando lo spettatore a confrontarsi con i propri fantasmi e con l'inconsolabile, ma vitale, peso della memoria.
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